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La compagnia petrolifera Eni accusata (in Italia) di causare inondazioni in un villaggio nigeriano
La comunità nigeriana di Aggah ha subìto inondazioni per via delle attività di una controllata di Eni. Per questo cerca giustizia in Italia, dove la multinazionale prende le decisioni che minacciano il suo villaggio.
C’è un’altra migrazione, che dalla Nigeria porta in Italia, ma non è quella delle persone che scappano da violenza e povertà. È quella di chi vuole giustizia e chiede che l’operato di multinazionali italiane venga giudicato secondo leggi e accordi europei, e non in tribunali africani, troppo spesso ingolfati da interessi locali, corruzione e mancanza di giurisdizione. Le comunità locali stanno imparando a far sentire la propria voce, anche grazie a organizzazioni umanitarie che mettono a disposizione gratuitamente competenze legali e favoriscono l’accesso alla giustizia.
È questo il caso della comunità nigeriana di Aggah, nel River State, meta prediletta delle multinazionali del petrolio, che a dicembre ha presentato un’istanza a Italia e Paesi Bassi contro la compagnia petrolifera italiana Eni e due holding olandesi per chiedere giustizia rispetto all’operato della controllata locale Nigerian Agip oil company (Naoc).
Le società sono accusate di aver violato i diritti umani degli abitanti di quest’area previsti dagli standard internazionali contenuti nelle linee guida per le imprese multinazionali stabilite dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Basate sui principi delle Nazioni Unite per le imprese e i diritti umani, le linee guida chiamano in causa la trasparenza, l’accountability e il rispetto dei diritti umani e incoraggiano l’applicazione di meccanismi di controllo qualora questi diritti vengano violati.
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Nonostante la difficoltà di perseguire società con strutture organizzative frammentate e soggette a diverse legislazioni quindi, questo strumento mira a rafforzare la responsabilità sociale delle imprese, affinché rispondano delle proprie azioni e delle azioni delle proprie controllate, anche quando queste operano in Paesi stranieri con limitate risorse o autonomia decisionale – come nel caso di Naoc.
Il caso di Aggah
Eni opera nella zona di Aggah dagli anni Settanta e ha costruito infrastrutture come strade sopraelevate e terrapieni che secondo molti avrebbero interrotto il naturale flusso delle acque causando violente esondazioni e allagamenti. Ogni anno vengono distrutte case e raccolti e gli abitanti, costretti ad abbandonare le proprie abitazioni, sono costantemente esposti a rischi per la salute, come polmonite e malaria.
“I nostri edifici”, spiega Vitoria Elechi, leader delle donne Aggah, “sono sommersi dall’acqua e le nostre case danneggiate. Necessitiamo supporto e che le inondazioni cessino”. E Blessing Godwin, sfollato con sua figlia a seguito delle inondazioni, aggiunge: “Non dormiamo più in casa, ma sopra al tavolo del mio negozio”.
Jonathan Kaufman è direttore esecutivo di Advocates for community alternatives, un’organizzazione che aiuta le comunità dell’Africa occidentale, minacciate dall’impatto delle attività estrattive e di uno sviluppo fondato sulle risorse fossili, a pianificare un futuro e uno sviluppo sostenibili. Kaufman segue il caso della comunità di Aggah, rappresentata legalmente da uno studio nigeriano, Chima Williams & Associates, con il supporto dell’avvocato Giacomo Cremonesi e della dottoressa Irene Salvi, per le pratiche da compiere in Italia.
È stata l’associazione locale Egbema voice of freedom, guidata da Pastor Evaristus Nicholas, a presentare l’istanza all’Ocse, chiedendo a Eni di installare dei sistemi di drenaggio dell’acqua che pongano fine alle inondazioni annuali, di compensare i danni causati e di assistere i residenti di Aggah i cui diritti sono stati violati.
“È chiaro che siamo davanti ad una violazione dei diritti umani perché, come risultato della negligenza o dell’azione dell’impresa, le persone non hanno più accesso a cibo adeguato, le loro case sono state distrutte, le condizioni di salute si sono deteriorate e in alcuni casi ci sono state delle vittime – tutte queste situazioni corrispondono a violazioni di diritti umani riconosciuti a livello internazionale”, spiega Kaufman. “Abbiamo analizzato documenti e trattati delle Nazioni Unite ed è chiaro che quello che appare ad un primo colpo d’occhio come un problema ambientale, passa al livello di violazione di diritti umani. Questo accade quando l’abuso ambientale è così grave da distruggere le risorse su cui le persone fanno affidamento per il proprio sostentamento”.
Diritti umani e trasparenza in Nigeria
Ma il problema non finisce con gli allagamenti: “Onestamente sono scioccato dal fatto che Eni non risolva questo problema che è davanti agli occhi di tutti e di cui sono state individuate le cause. I rapporti con la comunità sono ormai deteriorati. Non basta che Eni risolva il problema, ma è fondamentale che ci sia trasparenza e responsabilità così da evitare altre promesse non mantenute”. Qui sta la chiave della questione. La soluzione è semplice, ma il processo per raggiungerla è delicato e deve essere aperto e trasparente.
Molto spesso infatti, le compagnie affidano la realizzazione dei lavori a un membro o a una fazione della comunità ma senza trasparenza alcuna e senza la possibilità per il resto delle persone coinvolte di controllare la qualità dei lavori e l’effettiva capacità di risolvere il problema.
Un approccio partecipativo è importante a diversi livelli e aiuta la comunità a diventare più consapevole. Tra i documenti presentati a supporto dell’istanza per esempio, ci sono i risultati di una indagine realizzata interpellando 2.000 residenti sulla percezione dell’impatto generato dalle installazioni di Eni sul sostentamento, sulla salute e sulle risorse economiche di Aggah.
“Quello che emerge dall’indagine è una situazione davvero tragica”, continua Kaufman. “Prima di allora non avevamo un quadro complessivo ma grazie a questa ricerca la comunità ha chiara davanti a sé la situazione e ora che ha queste informazioni le può usare nella propria battaglia: questa è la realtà, indipendentemente da quello che Eni sostiene”. I risultati mostrano che, a seguito delle inondazioni, il 90 per cento delle famiglie ha subito danni all’agricoltura e il 65 per cento denuncia gravi problemi di salute.
La prima cosa da capire è se sono effettivamente stati gli interventi della Nigerian Agip oil company a causare le inondazioni. Il risultato dell’indagine mostra senza dubbio che la comunità è convinta di sì tanto che in passato ha anche pagato compensazioni ai residenti. Nel 2015 il ministero dell’Ambiente nigeriano ha ordinato a Naoc di realizzare gli interventi necessari per fermare le inondazioni ma, quando queste prescrizioni sono andate disattese, nel 2016 il governo è andato per vie legali. Al momento questa causa è bloccata, ma si è aperta un’altra via, quella dell’istanza che è stata presentato al Punto di contatto nazionale dell’Ocse.
Leggi il documento Pastor Felix Akudini al general manager di Naoc, 11 maggio 1999
Occorre anche analizzare perché si sia arrivati dopo così tanto tempo a chiamare in causa le linee guida dell’Organizzazione. “In verità mi sembra che a livello locale ad Aggah abbiano provato di tutto. Ci sono carte risalenti agli anni Novanta che testimoniano di denunce, proteste, riunioni, lettere. Io credo che nessuno abbia pensato di poter andare in Italia a cercare giustizia, è così lontano. Nel delta del Niger ci sono moltissime comunità che soffrono le conseguenze delle attività estrattive. Questo esempio è particolare ma mostra come le compagnie petrolifere operino con scarsa se non alcuna considerazione per le popolazioni. Per riuscire a portare avanti una causa in un tribunale estero la comunità deve essere molto unita, avere documentazione molto accurata, e anche avere avuto la fortuna di essere in contatto con legali internazionali. E la comunità di Aggah ha avuto questa opportunità solo recentemente”.
Cosa sono e come funzionano le linee guida dell’Ocse
Le linee guida sono raccomandazioni rivolte dai governi alle imprese multinazionali. Le linee guida mirano […] a rafforzare le basi per una fiducia reciproca fra le imprese e le società in cui operano. Secondo le linee guida le imprese dovrebbero, tra le altre cose:
- contribuire al progresso economico, sociale e ambientale per realizzare uno sviluppo sostenibile;
- rispettare i diritti umani internazionalmente riconosciuti delle persone interessate dalle loro attività;
- incoraggiare lo sviluppo delle competenze locali tramite una stretta cooperazione con la comunità locale […].
A questo proposito, ad esempio, la comunità di Aggah ha avanzato diverse richieste affinché fossero resi disponibili posti di responsabilità anche a giovani del posto.
Leggi la lettera da Egbema Youth Association al managing director di Naoc del 2 marzo 2011
Il ricorso alle linee guida non è una forma di giustizia particolarmente severa, ma come Kaufman suggerisce: “Questa non è un’attività da intraprendere se l’unico obiettivo è vincere. Questo è un processo che deve rafforzare la comunità, darle un senso di potere, di unità e soddisfazione”.
In semplici parole, funziona così: ricevuta l’istanza, i punti di contatto Ocse interpellato fa un rapida analisi del caso per decidere se questa rientra nelle linee guida e in caso positivo possono offrire una mediazione alle due parti. Se questa mediazione ha successo, le parti si impegnano con una dichiarazione pubblica sulle azioni da intraprendere. “Nel nostro caso, se la mediazione fallisce o Eni non vuole mediare, l’Ocse produce un report sulla situazione e potenzialmente una raccomandazione che però non implica alcun obbligo, solo un report ufficiale del governo italiano”, spiega Kaufman.
Quindi Eni può evitare di realizzare gli interventi che le vengono raccomandati, ma a quel punto si trova a disattendere indicazioni emesse dal governo italiano, che è tra l’altro anche azionista. A proposito di questo potenziale conflitto di interessi, l’inclusione del rappresentante dell’Ocse olandese, che ha molta esperienza in casi simili, costituisce un’ulteriore garanzia.
L’istanza è stata presentata il 15 dicembre 2017 e una prima risposta da parte di Eni è arrivata a inizio febbraio ma non è ancora stata resa pubblica.
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