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Gli incendi senza precedenti stanno cambiando il Pianeta per sempre. Siamo nell’epoca del Pirocene
con il contributo di Davide Ascoli e Valentina Bacciu Antropocene. Un’epoca geologica in cui l’essere umano è il principale responsabile delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche che avvengono sul nostro pianeta. Un’epoca che potrebbe essere incominciata già nel 1945: a partire da questa data i test nucleari e la “grande accelerazione” di tutte le attività
con il contributo di Davide Ascoli e Valentina Bacciu
Antropocene. Un’epoca geologica in cui l’essere umano è il principale responsabile delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche che avvengono sul nostro pianeta. Un’epoca che potrebbe essere incominciata già nel 1945: a partire da questa data i test nucleari e la “grande accelerazione” di tutte le attività umane hanno iniziato a lasciare tracce permanenti negli strati geologici della Terra. Radionuclidi, fosforo, mercurio, plastica, ossa di pollo fossilizzate – sono queste le tracce che testimonieranno il nostro passaggio per molte migliaia di anni nel futuro.
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Le tracce indelebili che lasciamo sul Pianeta: dall’Antropocene al Pirocene
C’è una traccia che più di altre racconterà in modo eloquente questa epoca: il carbonio. Chi studierà la storia della Terra tra dieci o centomila anni, magari analizzando l’aria fossile intrappolata nel ghiaccio Antartico (se esisterà ancora) scoprirà che nell’Antropocene la concentrazione di carbonio nell’atmosfera è aumentata vertiginosamente, raggiungendo in pochi decenni valori che il Pianeta non conosceva da almeno 3 milioni di anni.
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Il carbonio prodotto nell’Antropocene non si trova solo nell’aria. Il fondo dei laghi e delle paludi custodisce un’altra traccia duratura della nostra esistenza: piccolissimi prismi neri, opachi, concentrati in sottili ma precise “bande” preservate nei sedimenti in assenza di ossigeno. Carbone.
La traccia degli incendi passati, impressa sui fondali dei laghi per migliaia di anni. Ai futuri scienziati che lo estrarranno e analizzeranno al microscopio, il carbone dell’Antropocene racconterà la storia di quello che potrebbe avvenire nei prossimi cinquant’anni: un aumento inesorabile dell’area percorsa dagli incendi, a tutte le latitudini e in tutte le stagioni dell’anno.
Una storia profondamente intrecciata all’altro segno caratteristico dell’Antropocene: l’aumento del carbonio atmosferico generato dal nostro uso di combustibili fossili. Incendi di vegetazione da un lato, combustione delle riserve fossili dall’altro: la cifra di un nuovo rapporto dell’umanità con il fuoco e con il Pianeta. Una rivoluzione climatica della stessa portata di un’era glaciale – ma con le fiamme al posto del ghiaccio. Un cambiamento epocale, che potrebbe indurci a chiamare il periodo in cui viviamo con un nome ancora più appropriato: il Pirocene.
Una rivoluzione climatica della stessa portata di un’era glaciale, ma con le fiamme al posto del ghiaccio.Giorgio Vacchiano, Sisef
Come nasce un mega-incendio
La combustione è una reazione chimica a catena, veloce ed esotermica (ovvero con sviluppo di calore). Per avviarla servono tre ingredienti: un combustibile, i cui atomi sono pronti a spezzare i legami che li avvincono per ricombinarsi in una forma diversa; una fonte di calore o di accensione, che dà agli atomi la “spinta” iniziale necessaria a liberarsi dai legami chimici; e l’ossigeno, che si lega in modo irreversibile agli atomi sbalzati e forma con loro nuove sostanze, come il vapore acqueo o, appunto, la CO2. Una volta avviata, la reazione si auto-sostiene, perché il calore prodotto spinge altri atomi del combustibile a liberarsi e a combinarsi con l’ossigeno, fino all’esaurimento dell’uno o dell’altro.
Le tracce più antiche di un incendio boschivo sono residui fossili di carbonio risalenti ad almeno 420 milioni di anni fa: fu questo il primo momento in cui sulla Terra esisteva abbastanza combustibile (la vegetazione terrestre) e ossigeno (grazie al contributo delle prime foreste) per trasformare un scintilla in un fuoco. Le eruzioni vulcaniche e i fulmini procuravano l’innesco, l’ossigeno e la biomassa erano abbondanti, e il clima determinava quando la vegetazione poteva bruciare.
Ad esempio, i periodi caldi e secchi prosciugano la vegetazione e, privato dell’acqua e della possibilità di dissipare calore facendola evaporare, il legno si infiamma più facilmente e brucia con maggiore intensità. Ecco perché la siccità prolungata favorisce il diffondersi degli incendi, indipendentemente dalla causa di accensione. Al contrario, se la vegetazione è ricca d’acqua perché ha piovuto molto, difficilmente una scintilla potrà generare una reazione di combustione a catena.
Su scale temporali più lunghe, in secoli o millenni, la dinamica non dipende solo dal clima ma anche dalle interazioni con la vegetazione: per esempio, lunghe epoche piovose favoriscono la crescita della foreste, che diventano infiammabili solo in corrispondenza di rari ma drammatici episodi di siccità, che trasformano il “combustibile potenziale” in “combustibile disponibile”.
Il fuoco, come un setaccio, è un agente evolutivo
La vegetazione della Terra convive con il fuoco da molti milioni di anni: come un setaccio, il fuoco ha favorito la persistenza di quelle specie che avevano casualmente sviluppato caratteri di resistenza o resilienza al fuoco. L’”invenzione” della corteccia e l’emergere della capacità di produrre nuovi rami a partire da un ceppo danneggiato sono oggi considerati il risultato della selezione naturale imposta dal fuoco come agente evolutivo. Molte specie e comunità si sono spinte ancora oltre, sviluppando forme e tessuti che favoriscono la combustione: appaiata a efficaci e fantasiose strategie di riproduzione post-incendio, una elevata infiammabilità può essere il segreto del successo per chi è capace di persistere dopo un incendio quando tutte le specie concorrenti vengono invece distrutte.
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Un esempio di come la vegetazione possa influenzare a sua volta la frequenza e l’intensità degli incendi a scala globale è l’espansione delle savane e delle praterie, iniziata 25 milioni di anni fa a causa di una prolungata riduzione delle piogge a scala globale e culminata intorno a 6-7 milioni di anni or sono. Quando l’erba divenne la componente dominante di molti ecosistemi, il fuoco poté diffondersi più velocemente e su territori più vasti. La prateria sapeva rigenerarsi efficacemente dopo il fuoco, estendendo la sua presenza. A sua volta, il fuoco immetteva nell’atmosfera grandi quantità di CO2, che contribuirono a causare un cambiamento climatico “naturale” (molto più lento di quello contemporaneo), con un’ulteriore diminuzione delle piogge e l’espansione delle praterie a scapito delle foreste nella zona tropicale.
Il clima e la vegetazione hanno continuato a essere i principali driver degli incendi nel mondo anche dopo la comparsa del genere homo. Tre milioni di anni fa, l’espansione naturale della savana ai danni della foresta pluviale in Africa orientale avvicinò i primati umanoidi al fuoco. Dal terrore si passò alla venerazione, poi alla scoperta che le aree bruciate erano terreni buoni per approvvigionarsi di cibo e spostarsi, e infine alla domesticazione del fuoco.
Negli ultimi 100mila anni, l’uomo ha usato il fuoco in modo continuo, non solo per cucinare e scaldarsi, ma soprattutto per liberare grandi aree di territorio per la caccia o per insediarvisi. Tuttavia, la maggiore o minore diffusione degli incendi in quel periodo dipendeva ancora strettamente dal clima – fino all’inizio del 19esimo secolo, quando il fuoco dell’uomo si è “sganciato” dai processi naturali.
Quando l’uomo è intervenuto nei processi naturali del fuoco
I residui di carbone raccontano infatti che, dopo una riduzione durante la piccola età glaciale, negli ultimi 200 anni l’attività degli incendi ha subìto tre enormi variazioni. A partire dal 1800, l’espansione dell’uomo in territori ancora disabitati (Australia, ovest Americano, Sud America), l’aumento delle attività umane in grado di produrre scintille (automobili, ferrovie, lavori agricoli) e il crescente uso del fuoco per eliminare la vegetazione indesiderata hanno causato un primo picco nell’attività degli incendi, riflesso dall’improvviso aumento della quantità di residui carboniosi nei sedimenti recenti.
Un secolo più tardi, accortesi della minaccia, le comunità umane si sono organizzate per affrontarla: la nascita e la diffusione delle tecniche e tecnologie di controllo e lotta agli incendi, le campagne informative, gli strumenti normativi di divieto di uso del fuoco sono stati efficaci nel ridurre gli incendi al loro minimo storico, con riferimento all’ultimo millennio a scala globale.
Oggi stiamo assistendo invece alla terza grande variazione nell’attività degli incendi, forse l’inizio del Pirocene. L’aumento dei gas a effetto serra nell’atmosfera e l’alterazione del clima a scala planetaria rischiano di generare un nuovo aumento degli incendi in tutto il mondo, incendi che non siamo più in grado di controllare. Un aumento che osserviamo già in diverse parti del mondo (quelle più soggette a un aggravarsi delle siccità), e che è destinato a continuare secondo tutti gli attuali modelli climatici, arrivando a causare ad esempio un aumento dal 40 al 100 per cento dell’area percorsa dal fuoco nell’Europa mediterranea alla fine di questo secolo (Italia inclusa), e un prolungamento della stagione incendi di due settimane.
Siamo già nel Pirocene? L’aumento degli incendi degli ultimi anni
Dal 2017 ai primi mesi del 2020, le foreste di molti Paesi sono state colpite da vasti incendi. Dall’Italia al Portogallo, dalla Grecia alla California, dalla Svezia alla Siberia fino alla Groenlandia, dall’Amazzonia all’Indonesia (dove però vi è stata una forte interazione con le pratiche di deforestazione), e poi negli ultimi mesi in Australia: eventi che hanno colpito decine di milioni di ettari di territorio, provocato centinaia di vittime, e immesso nell’atmosfera grandi quantità di anidride carbonica, pari alle emissioni annuali di interi stati.
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In diversi casi questi incendi sono stati descritti come fenomeni “senza precedenti”, perché avvenuti in aree storicamente poco vulnerabili al fuoco, o per l’insolito periodo dell’anno in cui si sono verificati, oppure per caratteristiche (estensione, intensità, velocità di propagazione, interessamento di aree già recentemente percorse dal fuoco) mai osservate prima. L’estremità di questi incendi, la loro simultaneità su una scala geografica vasta e il prolungarsi per diverse settimane fanno temere ricadute di lungo periodo sui servizi ecosistemici, e impatti imprevedibili sulla biodiversità vegetale e animale.
Le ampie strategie di resilienza delle comunità che si sono evolute in territori periodicamente percorsi dal fuoco sono infatti messe a dura prova quando l’attività degli incendi supera l’”intervallo storico di variabilità”, cioè le condizioni in cui il fenomeno si è manifestato nel lungo periodo in cui piante e animali hanno evoluto le loro strategie di adattamento e di risposta.
Anche in Italia, alcuni incendi nella stagione 2017 hanno assunto un comportamento estremo, come l’evento che ha interessato la val di Susa tra ottobre e novembre, e che è risultato essere uno degli incendi più estesi a memoria d’uomo nei paesi dell’area alpina (oltre 4.000 ettari). Tutti questi eventi recenti hanno suscitato una grande attenzione mediatica, sia a causa della crescente sensibilità globale per la crisi climatica, sia perché hanno interessato aree densamente popolate, con effetti anche a grandi distanze per il trasporto del fumo sulle aree urbane, come è avvenuto in Amazzonia.
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In molti dei luoghi colpiti, l’area percorsa dagli incendi nell’ultimo biennio è superiore alla media degli ultimi decenni, come in alcuni stati Australiani (oltre 5 milioni di ettari in Nuovo Galles del Sud, il massimo da cinquant’anni), California (766mila ettari nella stagione 2018, il massimo dal 1970), e Russia (9 milioni di ettari a fronte di una media di meno di 5 milioni, sebbene con punte anche maggiori negli ultimi vent’anni).
Nell’Amazzonia la situazione sembra più complessa: il numero di incendi è stato superiore a quello degli ultimi anni, ma non ha rappresentato un record assoluto; l’area percorsa dal fuoco, secondo il primo studio scientifico ad esaminare la situazione, è stata superiore alla media in Bolivia, Paraguay e Venezuela, ma non in Brasile (dove comunque si è registrato un aumento rispetto all’anno precedente, passando da 800mila a 1.800.000 ettari percorsi dal fuoco: non un buon segno, dal momento che questi incendi sono strettamente associati alla deforestazione e possono aggravarne gli effetti).
La crisi climatica e la mano dell’uomo dietro agli incendi
Quasi tutti gli eventi dell’ultimo biennio portano una chiara “firma” della crisi climatica e delle sue conseguenze sulla circolazione dell’atmosfera terrestre e sul verificarsi di siccità prolungate, in Italia come nell’Artico, e molto probabilmente anche in Australia, dove l’ondata di calore e la siccità straordinaria del 2019 (2,5 gradi in più e il 30 per cento di piogge in meno rispetto alla media dell’ultimo secolo) sono il risultato di una oscillazione climatica, il dipolo dell’oceano Indiano, esacerbata in intensità e frequenza dal rapido e disomogeneo riscaldamento delle diverse aree della Terra.
In Canada, i ricercatori che hanno analizzato l’incendio di Fort McMurray, un unico incendio fra più grandi della storia recente (590mila ettari, anno 2016), hanno determinato che i cambiamenti climatici e la siccità che ne è conseguita hanno reso questo evento da 1,5 a sei volte più probabile che non in loro assenza, grazie a metodi di analisi innovativi che hanno permesso per la prima volta di determinare il grado di responsabilità dei cambiamenti climatici in un singolo evento estremo – un risultato considerato impossibile da ottenere numericamente.
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Su scala globale, tuttavia, la relazione tra cambiamenti climatici e incendi è una realtà complessa. Non tutti gli ecosistemi del mondo rispondono ai cambiamenti climatici allo stesso modo: la temperatura è prevista in aumento ovunque, ma con velocità diverse; la siccità, invece, colpirà alcune zone (tra cui l’Australia, l’ovest americano, il Sudamerica, l’Europa mediterranea), mentre in altre potrebbe registrarsi un aumento della pioggia e delle precipitazioni intense. Inoltre, all’effetto del clima si sovrappone ancora una forte influenza dell’uomo che con le sue attività innesca gli incendi, modifica l’infiammabilità dei paesaggi (come le piantagioni di eucalipto in Portogallo, l’abbandono delle aree agricole invase dagli arbusti in Italia, la diffusione di specie esotiche estremamente infiammabili in Australia) e cerca di controllare il fuoco con la tecnologia.
Questo è il motivo per cui le ricerche sull’effetto dei cambiamenti climatici a carico dell’area percorsa dagli incendi forniscono due risposte opposte. Il pericolo climatico degli incendi, dovuto al riscaldamento globale, è segnalato in aumento già su un quinto delle terre emerse e continuerà a crescere, specialmente negli scenari meno “virtuosi” di intensità delle emissioni di gas serra da parte dell’uomo.
La superficie percorsa dal fuoco sta invece diminuendo in molti territori, soprattutto a seguito dell’espansione delle aree agricole nelle zone di savana, all’aumento delle aree urbane, nelle quali gli incendi non si innescano, o dove le agenzie di lotta agli incendi riescono a far valere la loro efficacia a fronte di ingenti spese. Secondo alcuni scienziati questi andamenti opposti potrebbero compensarsi e limitare l’avvento del Pirocene.
L’andamento medio non ci racconta tutta la storia
Quanto sta avvenendo in Italia può però aiutarci a fare maggiore chiarezza su quello che ci aspetta. La superficie media percorsa dal fuoco è diminuita a partire dalla fine degli anni ‘80, e soprattutto dall’anno 2000 (quando fu varata la legge 353 sugli incendi boschivi), ma la variabilità tra una stagione e l’altra è aumentata – in altre parole c’è una maggiore probabilità che si verifichino incendi estremi – proprio come nell’estate 2017 al Vesuvio, alla Majella, in Val di Susa, per una superficie percorsa dagli incendi di oltre 165mila ettari a fronte di una media di soli 100mila.
L’andamento medio quindi non ci racconta tutta la storia, neppure a livello globale: è probabile che, se da un lato gli sforzi di estinzione e controllo ci collocano ancora sulla parte discendente della curva dell’attività degli incendi, singole annate a clima estremo – di cui gli anni tra il 2003 e il 2019 sono un primo anticipo – stiano già indicando un’inversione di tendenza dovuta alla crisi climatica.
Se nelle regioni più densamente abitate e con maggiori capacità di spesa si continueranno a contenere efficacemente gli incendi, questi potranno invece scatenarsi nelle parti più remote dei continenti, estendendosi a dismisura fino a raggiungere le zone urbane, minacciandole in modo diretto (come in Portogallo, Grecia e California) oppure indiretto, mediante il pesantissimo contributo alle emissioni di CO2 in atmosfera (già oggi pari a 7.3 miliardi di tonnellate all’anno, pari al 20 per cento di tutte le emissioni generate da combustibili fossili), al dissesto idrogeologico, e alla perdita di biodiversità, con conseguenze socioeconomiche e ambientali che si rifletteranno anche a grande distanza nello spazio e nel tempo.
Siamo tutti responsabili
Sarà questo il Pirocene? Un’ennesima transizione nell’attività degli incendi, che segnerebbe la fine del breve periodo in cui l’uomo è stato in grado di controllare il fuoco a scala globale, per ristabilire il ruolo preponderante del clima, assegnando all’umanità il ruolo inedito di “causa profonda” dovuta alla sua esclusiva responsabilità sui cambiamenti del clima del Pianeta. In sintesi: siamo tutti responsabili degli incendi del 2019. Non serve puntare il dito sul piromane, sull’incendiario o sulle “mancanze” dei servizi antincendio che coraggiosamente ci proteggono. Serve invece comprendere le complesse interazioni fra il mondo fisico, biologico e antropico che guidano l’attività degli incendi nel tempo e nello spazio con l’obiettivo di trovare soluzioni innovative di governo del fenomeno.
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