Dopo un mese di razionamenti, sono stati completati i lavori per la condotta provvisoria che porterà l’acqua dal fiume alla diga di Camastra, ma c’è preoccupazione per i livelli di inquinamento.
Fiorella Belpoggi. 5 anni bastano per provare che il glifosato è cancerogeno
Il glifosato è stato autorizzato fino al 2022, ora è tempo di accelerare sulla ricerca scientifica per provare quanto sia dannoso per la salute umana e della Terra. L’intervista a Fiorella Belpoggi dell’istituto Ramazzini di Bologna.
Dopo la decisione di rinnovare per altri cinque anni l’autorizzazione all’utilizzo dell’erbicida glifosato sul territorio europeo, abbiamo raggiunto Fiorella Belpoggi, dottoressa che da 40 anni lavora nel mondo della ricerca scientifica e ora è alla guida del centro di ricerca sul cancro “Cesare Maltoni” che fa capo all’istituto Ramazzini di Bologna.
Prima della votazione del Comitato permanente per le piante, gli animali, gli alimenti e i mangimi (Paff), Belpoggi ha deciso di anticipare i risultati di uno studio pilota perché così le diceva la sua coscienza. Perché era giusto che il ministro italiano dell’Agricoltura Maurizio Martina “sapesse” l’importanza del momento visto che un’esposizione di soli tre mesi al glifosato è già “in grado di alterare alcuni parametri biologici di rilievo che riguardano soprattutto marker correlati allo sviluppo sessuale, alla genotossicità e all’alterazione della flora batterica intestinale”. Questo è il parere di una persona, non solo consapevole, ma anche scevra da pregiudizi.
Anzitutto, ci piacerebbe sapere cosa pensa della decisione di rinnovare l’autorizzazione all’utilizzo del glifosato per 5 anni, rispetto ai 10 proposti inizialmente dalla Commissione. È soddisfatta?
Soddisfatta è una parola grossa. Diciamo che cinque anni potrebbero essere sufficienti sia per restringere l’uso del glifosato e dei suoi formulati, in osservanza del principio di precauzione, che a cercare di cambiare il sistema che regola le autorizzazioni dei pesticidi in Europa. Inoltre, la nostra volontà sarebbe quella di produrre, attraverso una nuova ricerca scientifica a lungo termine, dati più solidi e significativi, che permettano una valutazione più certa del composto. Fra cinque anni non vorremmo ritrovarci al punto di partenza, cioè nell’incertezza e nell’impossibilità di bandire il composto per la carenza di dati adeguati.
Per il phase out totale pensa siano sufficienti cinque anni? Già si parla di due anni extra da considerare per lo smaltimento delle scorte nel caso in cui il glifosato venisse vietato davvero in Europa nel 2022…
Si, penso che cinque anni non solo possano, ma debbano essere sufficienti per caratterizzare in maniera definitiva il rischio correlato al glifosato, ma anche per rivedere le regole che governano la quantificazione del rischio in Europa, a partire dalle linee guida sugli interferenti endocrini. Oltre che prevedere la possibilità che gli studi, per dimostrare la sicurezza di un nuovo prodotto, non vengano finanziati dall’industria, ma coordinati e vigilati da un ente terzo, come l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, che li affidi a istituzioni scientifiche indipendenti.
Perché ha scelto di diffondere alcuni risultati dello studio pilota che ha condotto l’istituto Ramazzini prima della pubblicazione ufficiale della ricerca? In che modo pensa che questa scelta abbia influito sul voto dell’Italia?
Devo essere sincera. Visto che la dose studiata è stata quella ritenuta sicura per i cittadini statunitensi, sono rimasta sorpresa quando ho ricevuto i nostri dati, elaborati dall’Università di Bologna, che presentavano differenze significative in alcuni parametri specifici degli animali trattati rispetto a quelli di controllo.
Lo studio “pilota”, propedeutico allo studio a lungo termine, è stato finalizzato all’ottenimento di informazioni generali relative alla possibile tossicità del glifosato e del formulato Roundup (prodotto dalla Monsanto, ndr) in diversi periodi della vita: neonatale, infanzia e adolescenza. E soprattutto a identificare possibili marcatori biologici espositivi. Come detto, glifosato e Roundup sono stati testati entrambi a una sola dose, corrispondente alla dose giornaliera ammessa di glifosato attualmente consentita negli Stati Uniti (acceptable daily intake) pari a 1,75 mg/kg/bw.
Alla luce dei risultati ottenuti, possiamo anticipare che il glifosato ed il Roundup, anche a dosi ritenute sicure e per un periodo espositivo relativamente breve – corrispondente all’incirca ad uno studio di tossicità a 90 giorni, cioè, in termini di età equivalente nell’uomo, dalla vita embrionale ai 18 anni di età – sono in grado di alterare alcuni parametri biologici di rilievo che riguardano soprattutto marcatori correlati allo sviluppo sessuale, alla genotossicità e all’alterazione della flora batterica intestinale.
Lo studio di altri parametri importanti, come la trascrittomica per la ghiandola mammaria, rene e fegato, così come lo studio dell’assetto ormonale nel sangue e le alterazioni cromosomiche dello sperma, sono ancora in corso. Lo studio “pilota”, proprio per le sue caratteristiche e finalità, non chiarisce le incertezze relative alla cancerogenicità del glifosato sollevate dalle diverse agenzie, ma sicuramente mette in evidenza effetti sulla salute altrettanto gravi, che potrebbero manifestarsi anche con patologie oncologiche a lungo termine e che, considerando anche la diffusione planetaria di questo erbicida, potrebbero affliggere un numero enorme di persone. Per questa ragione abbiamo sentito la responsabilità di comunicare i nostri dati (che peraltro sono già stati sottoposti alla richiesta di pubblicazione) sia al nostro ministro dell’Agricoltura che ai mezzi d’informazione in diversi convegni pubblici, oltre che ai cittadini. Non so quanto i nostri dati possano aver influenzato la decisione a livello europeo, certo è che per la credibilità e responsabilità sociale dimostrata in 40 anni di attività, i nostri dati non passano inosservati.
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Come verrà condotto lo studio globale e cosa necessita per partire, ad esempio in termini di finanziamenti e di coordinamento con altri partner scientifici internazionali?
Lo studio integrato e globale sul glifosato necessita prima di tutto di fondi che l’istituto Ramazzini conta di raccogliere tramite una campagna mondiale di crowdfounding. In termini di collaborazioni, avendo necessità di studiare molti aspetti della tossicità del glifosato (microbioma, interferenza endocrina, neurotossicità) avremo a disposizione una solida rete di collaborazioni scientifiche, sia nazionali che internazionali. Il coordinamento generale sarà affidato all’istituto Ramazzini.
Pensa che la campagna internazionale che si batte per lo stop al glifosato potrà aprire la guerra su più fronti contro il cocktail di pesticidi (e quindi per un’agricoltura sostenibile) che molto spesso ha effetti ancor più gravi sulla salute pubblica, come documentato in Argentina?
La consapevolezza scientifica che sia necessario studiare non solo i principi attivi ma anche, e soprattutto, i formulati commerciali dei diversi composti, è ormai consolidata e il problema è prioritario. Per arrivare a una valutazione efficace del rischio, l’unico modo è studiare quello che è presente nell’ambiente generale, ovvero cocktail di composti chimici – spesso – a basse dosi. Credo che il nostro studio pilota, così come la campagna di crowdfunding per lo studio integrato, possano costituire solide basi per una migliore analisi del rischio; va tenuto conto per esempio che nel nostro studio, a parità di dose, il glifosato ha avuto effetti statisticamente significativi soprattutto nella miscela di Roundup.
Quanto glifosato viene usato in Italia? Il fatto di non coltivare sementi ogm in qualche modo ci protegge dagli effetti peggiori?
È uno degli erbicidi più utilizzati a livello mondiale. Negli Stati Uniti è presente in oltre 750 prodotti dedicati alle coltivazioni intensive, in particolare quelle ogm che ne hanno incorporato la resistenza, agli orti e al giardinaggio. Nel 2013 la produzione mondiale di glifosato ha raggiunto circa 700mila tonnellate e il trend purtroppo nei prossimi anni è destinato a crescere e si stima che entro il 2020 la richiesta raggiunga un milione di tonnellate. In Italia il glifosato viene usato in molte coltivazioni (non ogm) come erbicida totale non selettivo, fitotossico cioè per tutte le piante.
È bene ricordare comunque che non tutte le sementi impiegate in Italia per la produzione degli alimenti commerciali sono di provenienze italiana. Una cospicua fetta arriva dal mercato estero che ha normative e limiti di legge diverse dai nostri. Dal rapporto 2016 dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale è emerso come le acque superficiali e sotterranee siano inquinate dall’acido aminometilfosfonico, principale metabolita e molto simile nella struttura chimica al glifosato, aumentando così le possibili fonti a cui l’uomo potrebbe essere esposto.
Cosa può fare una persona per proteggersi dall’esposizione al glifosato?
Il glifosato viene usato ovunque in agricoltura, ma anche nell’ambiente generale: nei parchi, nei giardini, sulle ferrovie. Questo nonostante l’Italia sia uno dei primi paesi europei ad aver regolato e limitato l’uso. La scelta di prodotti non trattati con pesticidi può abbassare i rischi, ma non li può eliminare completamente visto che i fiumi e le acque irrigue contengono residui di glifosato e di tanti altri pesticidi.
Eliminare il rischio di imbattersi nel glifosato è impossibile e ci vorranno decenni per liberarcene anche nel caso venisse bandito proprio perché il glifosato può essere presente negli alimenti d’importazione, come quelli che arrivano dal Canada che contengono grano duro fortemente contaminato durante il processo di essiccazione che viene eseguito in modo artificiale con il glifosato.
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