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Giorgio Calcaterra. Corro per essere libero
Ha vinto anche la Sahara Marathon, ma questa volta la vittoria più grande è stata stringere le mani dei bambini che volevano giocare con lui. L’intervista al maratoneta campione del mondo Giorgio Calcaterra.
Giorgio Calcaterra, maratoneta romano tre volte campione del mondo nella 100 km di ultramaratona, ha partecipato e vinto anche la Sahara Marathon che si è tenuta il 28 febbraio tra i campi profughi di Tindouf, in Algeria, con il tempo di 3:00:53 (3 ore e 53 secondi). Una maratona, giunta alla 17esima edizione, nata con lo scopo di sensibilizzare su un tema importante come quello dell’autodeterminazione – mai ottenuta – del popolo Sahrawi dopo il ritiro della Spagna dal continente africano avvenuta più di quarant’anni fa. Per ottenere questo risultato, i profughi chiedono che venga indetto un referendum imparziale e sotto l’egida delle Nazioni Unite, che possa mettere la parola fine al periodo della colonizzazione e dichiarare la Repubblica Araba Democratica Saharawi (Rasd, República Árabe Saharaui Democrática) uno stato sovrano. Per l’occasione abbiamo intervistato Calcaterra. Gli abbiamo chiesto cosa ha significato per lui questa esperienza sportiva, ma soprattutto umana.
Partiamo dall’esperienza che ha fatto sì che LifeGate iniziasse a interessarsi della maratona, ovvero la Sahara Marathon. Come mai hai scelto di parteciparvi e qual è il suo significato per te?
Ho scelto di partecipare alla Sahara Marathon dopo essere venuto a conoscenza della storia di quelle terre, di quel popolo che ha perso la libertà per interessi economici ben noti a tutta la comunità internazionale. Per me la corsa è sinonimo di libertà e anche se non ho potuto fare molto, sono stato contento di correre insieme ai sahrawi, di restare una settimana in loro compagnia. Ci hanno aperto le porte delle loro case mostrandoci ciò che di cui hanno bisogno.
In che senso la corsa vuol dire libertà?
Quando una persona corre riesce a raggiungere luoghi e posti da solo, in piena libertà, senza dipendere da nessuno. Non è un caso se un carcerato o una persona malata non possano scegliere di correre. La malattia, fisica o mentale, ti impedisce di essere libero. Per questo ciò che più si avvicina alla libertà, per me, è la corsa.
Qual è la cosa che ti ha colpito di più durante la settimana passata con il popolo Sahrawi?
La loro accoglienza. Quando tornavamo dagli allenamenti trovavamo sempre le porte aperte. Non c’erano serrature e non c’era nulla che mi faceva sentire ospite. Era come se fossi parte della famiglia, mi sentivo a casa. Mettevano a nostra disposizione tutto quel poco che avevano.
Segui una metodica legata all’allenamento, costante e fissa, o cambi a seconda del clima e del luogo della gara? Come ti sei trovato a correre nel deserto?
Io non sono una persona abitudinaria. Non mi faccio problemi a correre con il caldo o il freddo, sulla terra o sull’asfalto. Per questo mi sono subito trovato a mio agio e non ho avuto problemi di adattamento. L’unica cosa che rispetto rigorosamente è il numero di chilometri percorsi durante l’allenamento. Ma in questo caso l’obiettivo non era il risultato, ma conoscere il più possibile i problemi di questo popolo per raccontarli al nostro ritorno e cercare di trovare una soluzione.
Però nel tuo libro Correre è la mia vita si legge che preferisci correre al caldo piuttosto che al freddo…
Sì, mi adatto, ma col freddo fatico molto di più. Sono molto freddoloso (sorride, ndr). Infatti a Tindouf ho corso senza problemi.
Immagino che anche l’alimentazione sia un aspetto fondamentale. Ci puoi raccontare qualcosa a riguardo?
Io non mangio animali per una scelta etica. E cerco di evitare anche prodotti che hanno causato un loro sfruttamento. In alcune situazioni rispettare questa mia scelta è difficile, così mi porto dietro del cibo che so che non troverei. A Tindouf mangiano la carne di capra o di altri animali, ma non ho avuto grosse difficoltà perché cucinano molte verdure e fanno un cous cous buonissimo, o il riso.
L’essere vegetariano come incide sulla tua preparazione atletica?
Non ho mai avuto problemi. Per qualcuno lo è perché fanno fatica ad assimilare il ferro, io invece riesco ad assimilare il ferro anche dagli spinaci o dalle lenticchie, ad esempio. Quindi essere vegetariano per me non è mai stata una difficoltà. Lo sono dall’età di 16 anni. Durante un periodo della mia carriera ho ceduto alle pressioni esterne di chi voleva che variassi la mia dieta introducendo la carne. Ma, anche se le due cose possono non essere correlate, i risultati migliori li ho fatti da vegetariano.
Quando hai cominciato a correre?
Avevo 10 anni e insieme a mio padre abbiamo visto la pubblicità di una gara a Roma. Così ci ho provato. Lui ha visto la gioia nei miei occhi all’arrivo e dal quel momento mi ha spronato e sostenuto. Poi gradualmente ho cominciato a correre sempre di più e non mi sono mai fermato.
Qual è stata la vittoria o la soddisfazione più importante della tua carriera?
Ce ne sono diverse, ma la gioia più grande è stato il mio personale in maratona, 2:13:15 (2 ore, 13 minuti, 15 secondi realizzato nel 2000, ndr) durante una gara davvero entusiasmante. Però anche la mia prima vittoria mondiale nella 100 km è stata una festa incredibile, così come lo è stata la prima 100 km vinta in assoluto. Sì, forse questi tre momenti sono stati quelli che mi hanno emozionato di più.
La corsa dà la possibilità a molti di avere un momento per sé, un momento per pensare al futuro? Cosa ti sei immaginato per la tua vita per gli anni a venire?
Ora sto organizzando una gara, la Mezza maratona d’Italia che si svolgerà a Imola il 29 ottobre. Partendo da questa esperienza si potrebbe pensare, perché no, a una gara che abbia anche un risvolto sociale. Correre una maratona è molto diverso da organizzarla. Nel Sahara, ad esempio, non era facile perché gli organizzatori hanno dovuto prevedere a un sacco di cose, partendo dalla scorta fino ad arrivare ai problemi di lingua e quindi di comunicazione.
Chiudiamo tornando al punto di partenza, ovvero alla Sahara Marathon. C’è un momento che ti porterai dietro per sempre?
Le corse spontanee che facevo spesso insieme ai bambini mentre mi allenavo. I bimbi mi prendevano per mano e insieme, cominciavamo a correre. Per loro correre era un gioco, come lo è stato per me da bambino. Non avevano bisogno di giocattoli, di cose fisiche. Per loro giocare era correre a piedi scalzi su strade piene di sassi. Fare degli scatti, arrivare a un traguardo che poteva essere una tenda o una casa. Era bellissimo vederli ridere e divertirsi con nulla. Mi ha colpito la loro gioia: volevano correre per giocare.
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