Il dramma che vive la città di Valencia è soltanto un assaggio di ciò che rischiamo senza un’azione immediata e drastica sul clima.
Giorgio Vacchiano. Stiamo perdendo l’Amazzonia, ed è anche colpa nostra
Incendi e deforestazione stanno indebolendo sempre più la foresta amazzonica, che potrebbe scomparire. Ne abbiamo parlato con Giorgio Vacchiano, esperto di gestione e pianificazione forestale.
A causa dei numerosi incendi che da giorni stanno bruciando vaste aree di Amazzonia brasiliana, l’attenzione del mondo sembra rivolta verso la foresta amazzonica. Ci siamo così resi conto che la più vasta foresta pluviale esistente è sempre più spoglia e che il suo futuro è a rischio, con gravi conseguenze per l’intero pianeta. Per comprendere meglio il presente e il futuro dell’Amazzonia abbiamo chiesto a Giorgio Vacchiano, ricercatore in gestione e pianificazione forestale dell’università Statale di Milano, inserito tra gli undici scienziati più promettenti al mondo dalla rivista Nature, di spiegarci cosa sta accadendo.
C’è stata inizialmente poca chiarezza da parte dei media sul numero di incendi e sul trend rispetto allo scorso anno. Qual è la situazione dei roghi in Brasile?
In tutto il Brasile, dall’inizio dell’anno ad oggi, sono stati registrati circa 42mila incendi, l’80 per cento in più rispetto al 2018. Di questi, circa il 40 per cento ha colpito l’Amazzonia. In alcuni stati del bacino amazzonico l’aumento rispetto allo stesso mese dell’anno scorso è superiore, in altri inferiore o nullo. L’Istituto nazionale per le ricerche spaziali (Inpe) segnala un incremento 30 per cento nell’area percorsa da incendi, che per ora si aggira sui 18mila chilometri quadrati, rispetto al 2018. Naturalmente non basta confrontare con un anno soltanto, se si va più indietro nel tempo scopriamo che la cifra di quest’anno non è da record.
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Quest’anno, tuttavia, non è stato particolarmente secco, come invece quasi tutti gli anni con più incendi, è pertanto quasi impossibile che gli incendi abbiano cause naturali. Se, anziché il numero degli incendi, guardiamo i dati sulla deforestazione scopriamo che si sono impennati dall’anno scorso, dopo essere calati per quasi 15 anni, e per la prima volta in un decennio rischiamo di superare i 10mila chilometri quadrati persi a fine anno.
È vero che se venisse distrutto tra il 20 e il 25 per cento della foresta amazzonica, l’ecosistema potrebbe raggiungere un punto di non ritorno? A che punto siamo?
La prima ricerca in questo senso, condotta nel 2007 e basata su simulazioni climatiche e dello sviluppo della vegetazione, parlava del 40 per cento di foresta distrutta. Lavori più recenti hanno stimato il 20-25 per cento per alcune regioni dell’Amazzonia, quelle più “delicate” (che sono spesso le più aride). Questo “punto di non ritorno” si spiega perché la foresta amazzonica genera la propria pioggia grazie alla evaporazione di acqua dagli alberi. Se gli alberi vengono meno, la pioggia viene meno, e la siccità fa morire altri alberi, dando luogo a un circolo vizioso senza ritorno. Dagli anni Settanta ad oggi l’Amazzonia ha perso il 15, 16 per cento della sua superficie, permanentemente trasformata in campi e pascoli.
Il problema principale della distruzione della foresta amazzonica non è tanto la riduzione del contributo alla produzione di ossigeno, quanto il contributo all’aumento dell’anidride carbonica in atmosfera. È possibile stimare la quantità di CO2 rilasciata a causa degli incendi in Brasile?
Finora, secondo il servizio europeo di monitoraggio dell’atmosfera Copernicus, sono state emesse 230 milioni di tonnellate di CO2. Si ottiene questa stima elaborando le immagini satellitari per scoprire quanta superficie è bruciata, attribuendo a ogni ettaro bruciato un “fattore di emissione” (quanto carbonio è contenuto nel suolo e nella vegetazione) e cercando di capire quanto di questo carbonio può essere stato consumato dal fuoco, facendo ipotesi sull’intensità e il tipo di fiamme.
Ridurre il consumo di carne può contribuire davvero a ridurre deforestazione e incendi in Amazzonia?
In Brasile la carne è la causa principale di deforestazione, in modo diretto (animali allevati, macellati ed esportati) o indiretto (soia coltivata ed esportata come mangime). Secondo un rapporto della commissione europea, i consumi europei sono responsabili del 7-10 per cento della deforestazione mondiale. La parte del leone la fa la Cina, grande importatrice di soia brasiliana, soprattutto dopo l’imposizione dei dazi sul prodotto proveniente dagli Usa.
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Mangiare meno carne in Europa e in Italia certo aiuta, e la coerenza e consapevolezza individuale sono fondamentali, ma non è sufficiente a risolvere il problema, che va affrontato con politiche, accordi e incentivi internazionali. Uno di questi accordi esiste già ed è lo schema Redd+ (Reducing emissions from deforestation and forest degradation) delle Nazioni Unite. È un incentivo finanziario, negoziato tra tutti i paesi e coordinato dall’Onu, fornito da paesi donatori (ricchi) a quei paesi tropicali che dimostrano di ridurre le emissioni di CO2 legate alla deforestazione.
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