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La plastica dispersa nell’ambiente rilascia alcuni gas serra durante il processo di decomposizione. Secondo una nuova ricerca, l’inquinamento da plastica contribuisce così ai cambiamenti climatici.
I rifiuti di plastica dispersi nell’ambiente e nelle acque contribuiscono all’effetto serra e quindi al riscaldamento globale. La scoperta arriva da un gruppo di ricercatori che ha eseguito numerosi test nei pressi delle isole Hawaii. I risultati, pubblicati sulla rivista scientifica PlosOne, sono allarmanti: questo materiale, degradandosi, emette in particolare due gas serra, l’etilene e il metano. Quest’ultimo è particolarmente potente: benché resista meno nell’atmosfera rispetto all’anidride carbonica, nel periodo in cui è attivo è capace di produrre un riscaldamento 25 volte superiore a quello generato dalla CO2.
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La plastica non è ancora stata riconosciuta come una fonte di gas serra che contribuisce ai cambiamenti climatici. Eppure la presenza di questi gas aumenterà man mano che la plastica si andrà ad accumulare nell’ambiente perché il processo di decomposizione del materiale, causato da fattori ambientali quali luce, calore, umidità, ossidazione chimica e attività biologiche, porta a cambiamenti fisici e chimici nella sua struttura.
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La plastica non si degrada solo quando viene gettata in acqua. Anzi, la situazione è peggiore se l’irradiamento solare avviene in ambiente asciutto: la produzione di etilene è 76 volte maggiore che non in quello acquatico. I ricercatori Sarah-Jeanne Royer, Sara Ferrón e Samuel T. Wilson dell’università delle Hawaii hanno osservato la degradazione delle plastiche più comuni (policarbonati, acrilici, polipropilene, polietilene) per un periodo di circa sette mesi arrivando alla conclusione che il polimero più prolifico in termini di produzione di gas serra – in particolare di quelli sopra citati – è il polietilene, già noto per il rilascio di additivi nell’ambiente sempre a causa del processo di decomposizione.
Questo è il polimero sintetico più usato in assoluto: rappresenta infatti il 36 per cento della plastica prodotta al mondo. Dagli imballaggi ai contenitori, dal rivestimento interno delle confezioni ai giocattoli, dai tubi ai tappi, il polietilene è utilizzato per una miriade di prodotti di largo consumo e di conseguenza è anche il rifiuto plastico più diffuso nell’ambiente.
Inoltre, la degradazione della plastica nell’ambiente porta alla formazione di unità più piccole, le microplastiche, moltiplicando quindi la superficie del materiale soggetta agli elementi che contribuiscono alla sua decomposizione, e quindi accelerando la produzione di gas serra. Dato il ritmo con cui la plastica viene prodotta e usata, il fatto che se ne ricicla solo il 15 per cento a livello globale e che oltre 12 milioni di tonnellate finiscono in mare ogni anno, l’emissione di metano ed etilene rischia di continuare ad aumentare, ponendo seri problemi in fatto di clima.
Visto che gli effetti sono causati non solo dalla plastica nei mari ma anche quella sulla terraferma, “al computo, si devono aggiungere anche tutti quei rifiuti dispersi sulla terraferma, nelle città, nelle discariche, nei materiali da costruzione e persino dai vestiti”, afferma la ricerca. “A causa della longevità di questo materiale e della grande quantità di plastica che persiste nell’ambiente, le domande relative al suo contributo ai livelli globali di metano ed etilene dovrebbero essere prioritarie e prese in considerazione dalla comunità scientifica”, si legge nelle conclusioni dello studio. Per Royer, coautrice della ricerca, la soluzione è una sola, cioè fermare la produzione di plastica, specialmente quella monouso, alla sorgente.
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