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Jean-Baptiste Del Amo. Tutte le specie animali hanno diritto ad avere diritti
Il romanzo Regno animale di Jean-Baptiste Del Amo è una storia che racconta come siamo arrivati agli allevamenti intensivi e cosa c’entra la Prima guerra mondiale.
Un giorno d’estate del 1914 Marcel parte per la guerra, la prima mondiale. Era poco più che un bambino. Addosso l’odore del fieno, degli animali e del sudore di un giovane contadino. Al suo ritorno, il suo volto non è quello di un uomo, bensì di una persona sfigurata nel fisico e nell’animo da quello che allora era il conflitto più cruento nella storia dell’umanità.
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Éléonore, la cugina, lo accoglie comunque, a braccia aperte. Si sposano. Ma Marcel non torna più a fare il contadino. Di lì a poco si trasforma in un proprietario terriero che per dimenticare il suo passato si rifugia nell’alcool. Intanto quella che era poco più di una porcilaia diventa un allevamento intensivo, industriale che ospita maiali che sguazzano nelle loro deiezioni. Un affare di famiglia diventa una famiglia d’affari.
È questa la trama di Regno animale (edito da Neri Pozza), il romanzo dello scrittore francese Jean-Baptiste Del Amo che esplora un mondo violento, quello degli allevamenti intensivi, messo a confronto con il “macello” della Prima guerra mondiale e sulle conseguenze che ha avuto sull’evoluzione dell’umanità.
Incontriamo Del Amo a Milano, nella hall di un hotel del centro, nella quiete di una mattina autunnale. Del Amo “veste i panni” dello scrittore: maglione a collo alto, voce tranquilla, fisico vegetariano. Prendiamo un caffè e cominciamo la conversazione.
Sembra ci sia un parallelo tra la violenza tra gli esseri umani e la violenza nei confronti degli animali. In che modo la Prima guerra mondiale, sia nel romanzo che nell’attualità, ha influito sulla nascita delle “trincee” in cui sono costretti gli animali negli allevamenti intensivi?
Un legame tra la violenza dell’allevamento industriale e la Prima guerra mondiale c’è perché è stato il primo momento storico in cui la violenza ha raggiunto dimensioni di scala industriale e sono state usate per la prima volta armi prodotte per uccidere su questa scala. Una scala fin lì sconosciuta. La stessa violenza che poi è stata adottata negli allevamenti intensivi che, soprattutto a partire dagli anni Settanta, hanno conosciuto un peggioramento delle condizioni degli animali, tenuti rinchiusi per garantire il massimo rendimento. Quando anche gli animali vengono arruolati per nutrire i soldati durante la Grande guerra, come descrivo nel mio libro, il bestiame viene fisicamente portato al fronte e requisito dalle fattorie. Questa immagine prefigura quella che sarà la deportazione degli ebrei nei campi di concentramento. Questa è la metafora che collega la violenza sugli uomini alla violenza sugli animali.
La violenza sugli animali è un segnale che può anticipare la violenza che si può compiere sugli uomini? Perché apparentemente non c’è distinzione tra forme di violenza.
È vero che la violenza è violenza e basta, però quella usata nei confronti degli animali ha un elemento in più: è stata banalizzata nel corso del tempo, sminuita, giustificata in ogni modo. Per questo oggi è difficile guardare alla violenza sugli animali in modo diverso. Nel nostro passato, nella nostra mente c’è il mito di un’umanità carnivora a tutti i costi. L’uomo viene sempre associato al leone e quasi mai all’antilope. C’è questa immagine fantasmagorica, immaginaria dell’uomo carnivoro. Secondo questo ragionamento diventa non solo accettabile, ma necessaria la violenza nei confronti degli animali.
E poi c’è anche uno sforzo da parte nostra di tenerci a debita distanza dagli animali perché così possiamo sentire il nostro dominio su di loro. C’è una teoria a riguardo, esposta dalla filosofa Florence Burgat, che io trovo molto interessante: quando mangiamo una bella bistecca sappiamo che stiamo mangiando un animale, ne siamo consapevoli. Ma non lo vediamo vivo, nelle fattorie, come una volta. Grazie a questo, dopo anni e anni, continuiamo a percepire il nostro dominio sugli animali, a essere in un rapporto di forza.
Tornando alla metafora uomo-animale, nel libro è rappresentata la violenza nei confronti del maiale. Onnivoro, mangia tutto senza conoscere la provenienza. Verdura, frutta, scarti, carne o pesce. Come un uomo che va al supermercato e mangia quello che trova. Una somiglianza che rende ancora più concreto il parallelo tra la violenza dell’uomo contro il maiale come metafora della violenza dell’uomo contro se stesso.
Sicuramente questo parallelo con il maiale c’è, anche se va detto che il maiale è un carnivoro opportunista e un onnivoro per necessità. Se trova qualcosa da mangiare, una carcassa di qualche animale, la mangia, ma non è un cacciatore. Mangia quello che trova in natura. Quindi è onnivoro, ma incline a essere vegetariano, come in teoria dovrebbe essere l’uomo. Poi, però, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta c’è stata un’escalation di popolarità della carne, carne tutti i giorni, a pranzo e a cena. È diventato un simbolo dello status sociale perché era un lusso, qualcosa che potevano fare in pochi.
Oltre all’alimentazione, ai maiali ci lega il dna. Abbiamo in comune il 95 per cento dei cromosomi, cosa che rende evidente il fatto che siamo molto vicini gli uni agli altri. Ho letto un articolo che riportava i risultati di alcune delle ricerche scientifiche che sostengono che a breve si potrà fare trapianti di organi tra il maiale e l’essere umano. Siamo pressoché uguali. Non dimentichiamo che il maiale è uno degli animali più intelligenti del regno animale e quello che abbiamo più maltrattato e sfruttato nel corso della storia.
Uno dei suoi obiettivi è far provare al lettore le stesse emozioni che ha provato scrivendo il libro, attraverso il personaggio, in forma di romanzo. Una scelta apprezzabile perché spesso gli scrittori si rifugiano nel saggio per trattare argomenti che riguardano anche i valori, l’etica, la sostenibilità. Il collega Amitav Gosh, per esempio, ha scritto un saggio sul clima proprio per denunciare l’assenza dei cambiamenti climatici nella letteratura moderna. Conferma questa tendenza?
Io non sono un ricercatore, né uno scienziato, sono un romanziere e quindi scrivo di fiction, immaginazione, storie inventate. Questi due generi non sono così distanti l’uno dall’altro. Possono essere visti come complementari, perché magari ci sono dati più tecnici e fattuali che ben si sposano con l’esperienza emotiva di un libro di narrativa. Probabilmente in un romanzo si riesce a esprimere qualcosa di più empatico rispetto a quello che può fare un saggio, questo sì. Detto ciò, tengo a sottolineare che ‘Regno animale’ non è un libro militante, non è un libro che ha uno scopo politico, è un libro che solleva alcune questioni attraverso i suoi personaggi, ma non fornisce le risposte. Cosa che invece fanno solitamente i saggisti.
Nella fattoria degli animali è l’uomo che diventa una bestia Gabriella Bosco recensisce #RegnoAnimale di #JeanBaptisteDelAmo su @TuttoLibri pic.twitter.com/1e1ROi4pvI
— Neri Pozza (@NeriPozza) 30 settembre 2017
Quindi sbaglio a pensare che questo libro può contribuire a cambiare la mentalità, l’alimentazione delle persone in chiave vegetariana? Ormai è un fatto che gli allevamenti intensivi sono tra le cause principali dei cambiamenti climatici.
A mio avviso esiste una forma di umanità nei discorsi sui cambiamenti climatici in generale e, in particolare, su quello che è l’impatto degli allevamenti intensivi. Ho sentito tanto parlare degli uragani che in America centrale e negli Stati Uniti hanno fatto e fanno disastri. Molti hanno parlato dei cambiamenti climatici come causa di questi fenomeni, ma nessuno ha detto che gli allevamenti intensivi rappresentano il primo responsabile delle emissioni di gas serra in atmosfera, stiamo parlando del 14,5 per cento del totale delle emissioni di origine antropica che arriva dagli allevamenti bovini. Detto ciò è molto importante non perdere di vista la lotta per i diritti degli animali, ovvero uno sforzo per cercare di eliminare la loro sofferenza, una sofferenza che noi imponiamo a miliardi di capi di bestiame ovunque nel mondo. E non perché ne abbiamo bisogno per sopravvivere, ma per un nostro desiderio, per il nostro piacere. Questa è una questione sempre più urgente e sarà meglio che si decida di affrontare questa questione molto presto, di ripensare l’intero sistema di allevamento degli animali e anche il nostro atteggiamento nei loro confronti. Adesso è il momento di cambiare.
Lei è vegetariano o vegano?
Vegano.
Si può scegliere di essere vegetariani o vegani per diversi motivi. Per gli animalisti neanche gli allevamenti biologici sono accettabili perché non c’è distinzione di violenza per loro. Anche noi, su LifeGate, riscontriamo difficoltà nel gestire certe notizie perché sui social si creano distinzioni tra vegani e vegetariani da un lato e chi dice che bisogna moderare il consumo di carne senza eliminare le tradizioni dall’altro. Lei ha notato questo contrasto tra pro e contro?
Anche in Francia ci sono posizioni contrastanti, però è un discorso un po’ complicato perché ci sono sicuramente posizioni molto vicine all’antispecismo – non mi piace parlare di ideologia vegana, ideologia vegetariana. Si tratta di uno stile di vita che si decide di adottare, ma soprattutto dell’applicazione pratica nella nostra vita quotidiana di questo atteggiamento antispecista. Significa avere un atteggiamento che non discrimina tra le diverse creature che popolano il nostro pianeta e, anzi, tiene tutte le varie specie viventi in considerazione allo stesso modo.
Questo non vuol dire dare il diritto di voto alle mucche, vuol dire che quella mucca va considerata come un individuo, un singolo che prova emozioni e sofferenze, sia fisiche che psicologiche. È un essere vivente che gode di diritti: ha diritto a non essere torturato, a non essere rinchiuso in un edificio dove non vede mai la luce del sole, ha diritto a non essere sfruttato e soprattutto a non essere ucciso. Tutto questo è significa essere antispecista nella sua applicazione vegana. Proprio in base a questo principio è chiaro che se si è antispecisti si rifiuta qualsiasi tipo di allevamento, perché l’allevamento solitamente porta come scopo ultimo alla morte dell’animale.
Esiste poi un’altra posizione, un’altra tesi che si chiama welfarismo, dall’inglese welfare, che sostiene che bisogna migliorare la condizione dell’animale, ma non necessariamente rinunciare totalmente al consumo di carne e quindi ci sono delle posizioni contrarie a certe forme di violenza sugli animali, come chiudere in gabbia gli animali da allevamento. L’antispecista sa che gli allevamenti non possono cessare di esistere da un giorno all’altro: questa è un’utopia e bisogna esserne consapevoli. Per cui, alla luce di questa considerazione, si è giunti alla conclusione che il welfarismo può essere un periodo di transizione molto utile, una strategia per cercare di cambiare la direzione delle cose verso l’abolizione di qualsivoglia forma di violenza nei confronti degli animali.
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