Le tribù della valle dell’Omo in Etiopia vivono a stretto contatto con la natura e il fiume da cui dipendono. Questo reportage esclusivo racconta come la costruzione di una diga, i cambiamenti climatici e un boom turistico stiano mettendo a dura prova la loro capacità di preservare stili di vita ancestrali.
I volti delle culture indigene più colorate e remote del mondo, nei ritratti del fotografo Jimmy Nelson
Le tradizioni indigene stanno inesorabilmente sparendo. Jimmy Nelson gira il mondo per fotografare le popolazioni indigene più belle e remote del Pianeta per insegnarci quanto siano speciali.
La fotografia ha sempre avuto l’incredibile potere di arrivare al cuore delle persone di ogni nazionalità, lingua ed età, ed essere uno strumento essenziale per aumentare la consapevolezza su tantissimi temi. Ed è questo che fa il fotografo e reporter Jimmy Nelson nei suoi viaggi in tutto il mondo per visitare le ultime culture indigene. Attraverso il suo obiettivo ci mostra il valore – e la bellezza – della diversità culturale del mondo.
Le sue foto ci portano negli angoli più remoti del Pianeta e testimoniano l’inesorabile velocità con cui queste comunità si adattano e cambiano mentre si avvicinano e abbracciano il futuro. I viaggi di Nelson tra queste tribù hanno dato vita al libro Before they pass away (parte 1 e 2). Abbiamo parlato con lui della sua vocazione, delle sue avventure e delle connessioni con le tribù indigene.
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Ha iniziato il suo percorso da fotografo viaggiando per il Tibet. Come e perché ha focalizzato l’attenzione sulle culture indigene?
Avevo 17 anni ma non ho iniziato subito come fotografo. Sono scappato. Da bambino ho vissuto alcune esperienze strane che mi hanno disconnesso. A 16 anni i miei capelli sono caduti cambiando notevolmente il mio aspetto e, in più, ero un ragazzo molto creativo, così mi davano dello stupido. In sostanza, non ero un adolescente felice. Quindi sono sparito in Tibet non perché c’erano popoli indigeni, ma perché c’erano monaci senza capelli. Era una connessione. Il mio viaggio è stato un processo per riconnettere: Chi sono? Come appaio? Come mi vedete? Come vi vedo? Così, la mia macchina fotografica era una metafora per descrivere le persone che incontravo. In due anni di viaggio ho ricevuto più amore e gentilezza di quanta non ne abbia mai ricevuta dalla mia cultura. E oggi, 33 anni dopo, sto facendo lo stesso. Non sono un antropologo né un etnologo. Forse egoisticamente cerco di rimanere connesso con persone che sono reali e umanamente ricche. La storia e, quindi, il progetto sono diventati sempre più grandi e sto fotografando sempre più gruppi indigeni ma la motivazione che c’è dietro rimane sempre la stessa.
“Before they pass away, parte 1” parla di 35 comunità indigene. Come le ha scelte e come si è messo in contatto con loro?
L’obiettivo era creare un caleidoscopio visivo della diversità geografica. Quindi ho scelto le comunità più colorate del mondo, quelle più isolate, e in paesaggi sempre diversi. L’idea generale è uno spaccato estetico del mondo. Le ho connesse grazie alle esperienze che ho fatto passando tutta la mia vita in viaggio, perciò a grandi linee so dove si trovano le comunità. Quando sono in viaggio ho tutti gli ingredienti, ma non so quale sarà il risultato finale. Lo lascio al caso, una volta che arrivo vedo cosa succede. La seconda parte del progetto (Before the pass away, parte 2), che uscirà in autunno, parla di 85 nuove comunità indigene. Ma ora sono loro che mi approcciano: “Vieni a visitarci. Siamo speciali, unici”. Tra l’altro, nella seconda parte ritorno da alcune tribù che avevo già visitato nella prima, per completare il cerchio di discussione.
Nelle sue foto i popoli indigeni indossano il “vestito della domenica” o vivono effettivamente così?
Direi che l’80 per cento è realtà e il 20 per cento è il vestito della domenica. Faccio un esempio. Potrei venire a casa vostra il sabato mattina, dopo che la notte prima siete stati a una festa, i vostri capelli non sono in ordine e avete addosso il pigiama. È reale. Oppure potrei dirvi “Arrivo domenica all’una. Preparatevi, andate dal parrucchiere, mettetevi una bella camicia perché voglio farvi delle belle foto”. Questo è sempre reale, ma con dietro della preparazione.
Le comunità indigene come reagiscono al suo lavoro?
Sono grati. Poi molti si chiedono: “Va bene, tu pensi che siamo speciali. Ma noi non siamo sicuri, non sappiamo se lo siamo davvero oppure no. Siamo ricchi? Siamo poveri? Dove dovremmo andare? Dovremmo rimanere o spostarci in città?”. C’è un grande dibattito. Sono un po’ confusi perché ormai quasi tutti hanno accesso al mondo esterno. Molti hanno i telefoni o anche gli smartphone. Quindi si rendono conto che il mondo sta diventando omogeneo. Alla fine la loro domanda è: “La nostra identità e la nostra autenticità sono davvero importanti o dovremmo lasciarle indietro?”.
Le è mai stato capitato di essere rifiutato?
No, non sono mai stato rifiutato. Ma una volta mi sono rifiutato io. Con gli aborigeni in Australia non ero a mio agio perché non volevano essere fotografati, erano insicuri. Loro hanno una storia e un rapporto con la politica molto complicati. Quindi non mi sono spinto oltre, anche se avrei potuto comunque fare le foto. Ma non si tratta solo di fare foto, si tratta di stabilire una connessione.
Quale comunità indigena l’ha più colpita? E da quale ha imparato di più e, ovviamente, cosa?
È impossibile sceglierne una perché ognuna è diversa e ognuna rappresenta un mondo differente. Una vive al caldo, l’altra al freddo, una vicino alla città, mentre altre sono più lontane e isolate. Ma mi è successa una cosa speciale con i monaci kazaki in Mongolia. La prima volta che ero stato da loro sono stati davvero gentili: lì il clima è molto freddo e io non ero preparato. Così, mi hanno accolto. La seconda volta, mi hanno ringraziato di essere tornato. E mi hanno raccontato: “Adesso siamo su internet e abbiamo sentito che hai parlato di noi. Ora persone da tutto il mondo vengono a trovarci, chiedendo di fare ‘foto in stile Jimmy’. Noi ci facciamo pagare per queste foto ma tu ci hai ridato la nostra identità, di nuovo. Siamo orgogliosi di essere chi siamo. E possiamo guadagnarci da vivere mantenendo la nostra cultura. Eravamo davvero vicini a lasciarci tutto indietro per andare in città. In realtà vogliamo rimanere ma dobbiamo trovare un modo per sostenerci economicamente”. Così, impariamo gli uni dagli altri. Loro insegnano a me e io insegno a loro.
Ci sono comunità indigene che ha fotografato che ora non esistono più?
È una domanda difficile a cui rispondere perché tutto quello che abbiamo fotografato e filmato sta cambiando. Ad esempio, l’etnia Himba è molto presente sui mezzi di comunicazione, ma in realtà solo l’1 per cento di loro vive in modo tradizionale. Tutti stanno lasciando indietro le proprie tradizioni e i propri ambienti. Ma non stanno scomparendo come persone. Dopo aver dato quel titolo al mio libro molta gente mi diceva “non sta morendo nessuno”. Lo so, nessuno sta morendo. Ma qualcosa sì, qualcosa sta morendo. Ma anche in questo caso non è in modo definitivo perché si sta evolvendo e sta cambiando.
Come si sente a riguardo? Alla fine è come se si portasse dietro un peso perché conosce culture che sa potrebbero non esserci più domani.
Io la vedo nell’altro senso, non vedo nessun peso. La gente mi dice: “Come puoi andare da loro? Li mostri al mondo”. La mia risposta è che il mondo lo sa comunque. Ci siamo evoluti, globalizzati e digitalizzati. Non esistono più segreti. Possiamo costruirgli un muro attorno e lasciarli in una bolla. Ma non funzionerebbe. Questo vuole dire disconnettersi. Al contrario, io direi: “Abbattiamo i muri. Facciamo sapere a tutti dove siamo. E assicuriamoci che queste persone sappiano quanto sono speciali”. Bisogna essere proattivi, non passivi. Dobbiamo parlare a queste persone, dobbiamo dirgli di non andarsene. E insegnargli quanto sono speciali.
Abbiamo letto delle critiche da parte di Survival International. Perché pensa che il suo lavoro possa essere malinteso?
Le critiche sono arrivate all’inizio. Survival International non ha indagato su quello che stavamo facendo. Ci hanno solo giudicati. La mia risposta è che quello che faccio ruota intorno ai giudizi: “Non mi guardare e non mi giudicare, così come io non ti giudico guardandoti. E non giudicarli solo perché sono neri e nudi”. Così, Survival International è stata ipocrita perché se avessero guardato meglio avrebbero capito che stiamo cercando di fare la stessa cosa. Stiamo cercando di creare una conoscenza e un’istruzione migliore, per loro e per noi. Ma io non lo faccio urlando e dicendo: “Stanno scomparendo ed è tutta colpa vostra”. Cerco di farlo nella maniera opposta. Dico che quello che rimane è stupendo e dobbiamo capirlo. Attraverso la fondazione stiamo cercando di raccogliere fondi per mandare giovani fotografi e cinematografi dalle comunità indigene per creare una sorta di “Google delle tribù”. Così che in futuro sia loro che noi avremo accesso alle loro tradizioni, per evitare che vadano perse.
Ha mai vissuto in prima persona alcune delle sfide che affrontano le comunità indigene, come la deforestazione?
Il motivo per cui tutte le tribù (e le culture) indigene sono remote è che vivono in luoghi dove ci sono le ultime risorse naturali del mondo. Le due cose diventano una sola. Ma se ci concentriamo solo sulle risorse naturali, ci dimentichiamo degli esseri umani. Quindi dobbiamo concentrarci anche sui loro valori. Ad esempio, in Ecuador il governo voleva cacciare il popolo Huaorani che vive nella giungla. Dicevano di non aver bisogno della comunità indigena perché occupava un’area dove c’era petrolio e gas. Ma un consulente è intervenuto affermando che nel lungo termine sarebbe stato un vantaggio più sostenibile e di più valore lasciare lì la comunità indigena e proteggere la foresta piuttosto che sfruttarla per le risorse minerarie. Nel breve termine ci sarebbe stato un guadagno in termini di risorse minerarie, nel lungo termine ci sarebbe stata una perdita di cultura, di patrimonio e di tradizioni. Perché avere una delle ultime foreste incontaminate con una comunità indigena ha più di valore. Alla fine il governo ha deciso di non cacciarli. È, quindi, una questione di educazione e conoscenza. In generale, però, non mi focalizzo sulla politica perché so che non potrei mai vincere, perché sono da solo. Per questo cerco di fare qualcosa di più grande e di più romantico.
La fotografia è uno strumento molto potente, come secondo lei?
Sì, la fotografia è una metafora, è una lingua che ormai parlano tutti. Tutti capiscono le fotografie e tutti, alla fine, sono diventati fotografi. Il mondo non è fatto di politici, bracconieri o petrolieri. E se diamo uno slancio al rispetto e all’apprezzamento della bellezza credo che avremo più potere rispetto ad entrare nel dibattito politico.
Ha anche visitato una comunità indigena in Olanda. Ci ha colpito perché si pensa sempre che questo tipo di culture siano lontane da noi.
Ci sono persone in Olanda che indossano ancora i vestiti tradizionali, ma ovviamente hanno macchine e cellulari. C’è una linea fine di confine. Non sono completamente isolati, ma si tratta di un rispetto culturale attivo. Il mondo si fa sempre più uguale e credo che diversità e autenticità siano cose preziose. Quindi che si tratti di una tribù dall’altra parte del mondo o semplicemente di vestiti tradizionali in Occidente alla fine è la stessa cosa. Loro stanno mantenendo viva la propria diversità e autenticità. E il mio viaggio è anche andare fino alla fine del mondo e poi tornare in questo, perché tutti e due i mondi sono importanti.
Before They Pass Away part 2 verrà pubblicato in autunno. Quali sono le novità rispetto al primo libro?
Al momento siamo a due terzi della produzione e fino a maggio abbiamo in programma altri sette viaggi: in Amazzonia, in Siberia e in Africa. La cosa emozionante è che abbiamo filmato tutto con macchine a realtà virtuale. Quindi ovunque siamo stati, c’è un film a 360 gradi. Un’altra novità è che lanceremo un’applicazione. Così quando qualcuno vede una foto che gli piace sul libro e vuole saperne di più su quella persona o comunità, l’app attiva un film a 360 gradi sul telefono. Alla fine diventa un libro interattivo in cui la gente viene con me in quei luoghi.
Cos’è la Jimmy Nelson Foundation?
Abbiamo creato la fondazione circa un anno fa, ma stiamo crescendo. Spero che tra cinque anni la fondazione sia più grande del progetto e che porti centinaia di persone a viaggiare in tutto il mondo per insegnare alle tribù a fotografarsi per preservare le proprie tradizioni. La fondazione creerà una biblioteca digitale, come un Google o Wikipedia delle tribù indigene. Non facciamo donazioni, non costruiamo scuole o pozzi. Continuiamo a fare quello che stiamo facendo ora, creando questa libreria visiva fatta di video, foto, suoni, tradizioni e lingue.
Cosa possiamo fare, noi?
Se siete curiosi, giovani e coraggiosi e se avete a cuore l’ambiente e volete fare qualcosa di sostenibile, unitevi alla fondazione, presentateci le vostre idee e vedremo se possiamo mandarvi in quei luoghi per fare nuove foto e nuovi video. Non so se quello che sto facendo è giusto, non ho tutte le risposte. Ma voglio portarvi con me affinché possiate vedere e conoscere quelle realtà e poter iniziare, insieme, a fare altre domande.
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