Nel campo profughi di Burj al-Barajneh, le donne palestinesi preparano pasti e distribuiscono aiuti alle persone in difficoltà nella città di Beirut.
Kashmir senza pace. Tutto quello che c’è da sapere del conflitto tra India e Pakistan
Dalle origini del conflitto in Kashmir, all’escalation di violenze degli ultimi due anni. Il territorio conteso da India e Pakistan è ancora teatro di abusi.
“Immensa bellezza e tragedia”, dice del Kashmir una delle sue studiose più note, la britannica Victoria Shofield. La storica scrittrice, giornalista, amica dell’ex premier pachistana Benazir Bhutto e sua compagna di studi a Oxford, ha ragione: viaggiando per decenni in quest’ampia zona himalayana, contesa violentemente da India e Pakistan in più guerre e tutt’ora divisa in due zone d’influenza, ha incontrato sia dolore che gioia. Il dolore dei civili kashmiri che non hanno pace e non si sentono padroni del loro destino, e la gioia, che diventa orgoglio, di vivere nella rara magnificenza di gruppi montuosi, ghiacciai, fiumi e laghi, sebbene anch’essi messi a rischio da urbanizzazione e cambiamenti climatici.
2018, un anno nero per il Kashmir
Il 2018 per il Kashmir è stato l’anno più sanguinoso dal 2009. Oltre 400 morti sono stati in gran parte causate dalle forze di sicurezza indiane. Nel fuoco incrociato fra soldati indiani e insorti pachistani a fare le spese sono stati, come sempre, molti civili. La recrudescenza del conflitto è cominciata nell’estate del 2016. Da metà luglio di quell’anno a marzo 2018, nell’ultimo e unico rapporto stilato in 70 anni, l’Alto commissariato Onu per i diritti umani imputa all’esercito indiano un uso eccessivo della forza e l’uccisione di almeno 145 persone. Nello stesso periodo, sempre secondo l’indagine delle Nazioni Unite, i gruppi armati hanno assassinato almeno 20 individui.
Un conflitto irrisolto, tra Pakistan e India
Il Kashmir è teatro di un conflitto irrisolto, che come quello israelo-palestinese sembra non avere fine. Dalla divisione del 1947 fra India e Pakistan, con l’uscita di scena dei colonizzatori britannici, a nulla sembrano essere serviti negoziati, missioni diplomatiche, accordi di tregua. Ad oggi, due terzi della regione sono amministrati dall’India (regioni di Jammu & Kashmir e Ladakh) e un terzo dal Pakistan (l’Azad Jammu e Kashmir e il Gilgit-Baltistan). La frontiera divisoria, non formalmente riconosciuta a livello internazionale, è stata stabilita nel 1949 e chiamata “linea di controllo”. Ricorda quella fra le due Coree, un retaggio della guerra fredda. La parte indiana del Jammu & Kashmir, però, continua a essere contesa dalle due potenze dell’Asia meridionale.
Dopo tre guerre (1947-49, 1965, 1999), a fine anni Ottanta è soprattutto la valle del Kashmir, con capitale Srinagar, a diventare teatro di scontri fra nuovi insorti islamici anti-governativi ed esercito indiano. Il Jammu & Kashmir è l’unico Stato a maggioranza musulmana della federazione indiana, con un picco di oltre il 90 per cento proprio nella valle. In Kashmir non sono in gioco solo le aspirazioni nazionaliste della popolazione locale, ma soprattutto lo scontro fra due stati politicamente molto diversi, il Pakistan prevalentemente musulmano e confessionale, e l’India a maggioranza indù ma (almeno formalmente) democrazia laica.
Dal 1989 in Kashmir si vive in perenne tensione. Il Kashmir indiano è una delle zone più militarizzate del mondo, con 500mila soldati schierati, dove hanno agito un numero cospicuo di gruppi guerriglieri islamici, locali e stranieri. Fra gli autoctoni ci sono gli autonomisti e gli indipendentisti, che sono stati isolati sia da Delhi che da Islamabad. Con “stranieri”, invece, si intendono sigle di militanti nati e addestrati altrove (Pakistan e Afghanistan) seppure con una presenza kashmira, ma in nome di un’ideologia panislamica. Si tratta di gruppi che hanno compiuto attentati terroristici, sostenuti e spesso “infiltrati” dall’intelligence pachistana (anche se i governi di Islamabad hanno sempre negato rapporti con i militanti), e che userebbero la causa kashmira come scusa nel loro più ampio braccio di ferro con l’India.
L’ennesima guerra “per procura”
Negli anni Dieci del nuovo millennio l’Occidente si è dimenticato del Kashmir. Dopo l’attacco terroristico di Lashkar-e-Taiba (Let) nel 2000 al Forte Rosso, nel 2001 di Jaish-e-Mohamad (Jem) contro il Parlamento di Delhi e i dodici attentati coordinati sempre da Let a Mumbai del 26 novembre 2008, in cui sono morti 165 civili e ne sono rimasti feriti più di 300, l’attenzione mediatica si è concentrata sulla forza devastante di questa organizzazione e sul suo ideologo Hafeez Saeed. È vero, gli attentati, tra cui quello al maestoso Taj Mahal Palace Hotel, dove centinaia di turisti furono presi in ostaggio e 31 di loro persero la vita, sono stati condotti in nome della “causa kashmira”, ma a Mumbai, a oltre 2mila chilometri di distanza.
Mohammed Taqi, editorialista del quotidiano pachistano Daily Times spiega ad Al Jazeera: “La guerra per procura cominciata in Kashmir nel 1947 rimane un pilastro della strategia di difesa pachistana. La ricerca della cosiddetta ‘strategic-depth’ in Afghanistan (dottrina secondo cui il Pakistan vuole controllare l’Afghanistan in relazione alle sue tensioni con l’India, ndr) è una manifestazione dello stesso fenomeno”. Secondo molti analisti, il conflitto in Kashmir aumenta di intensità se crescono le frizioni fra i giganti nucleari Pakistan e India. Dopo il 26 novembre di Mumbai, nella valle del Kashmir si è registrata una calma relativa. È stata aperta la prima via commerciale attraverso la linea di controllo, ma un centinaio di ragazzi che protestavano contro il governo è stato ucciso dai militari indiani senza quasi fare notizia. Inoltre, i gruppi jihadisti basati in Pakistan, tra i quali Let, Jem e Huji (Harkat ul Jihad Islami), si sarebbero riorganizzati tentando un revival delle violenze degli anni Novanta.
Per Khalid Shah, del think tank Observer research foundation (Orf), sarebbe “falsa” la narrativa dei gruppi jihadisti come Let, per i quali è una priorità il bene del Kashmir. Tale propaganda servirebbe a giustificare le aggressioni contro l’India. L’89 per cento dei quadri di Let, infatti, sarebbe reclutato nella provincia pachistana del Punjab e meno del 2 per cento risulterebbe originario del Kashmir. Aggiunge il professore Davood Moradian dell’American University dell’Afghanistan: “L’esercito e l’élite politica vedono il Pakistan come un paese egemonico. Un potere egemonico e regionale necessità di una parità con l’India e di un dominio sull’Afghanistan”.
Chi pensa ai kashmiri?
I sogni locali di azadi (indipendenza) e di un plebiscito, come suggerito dal primo governatore generale dell’India indipendente Louis Mountbatten, per capire che cosa desiderassero realmente i kashmiri non si sono mai concretizzati. I rappresentanti politici autoctoni non sono mai stati coinvolti nelle trattative di pace, come riporta l’International crisis group (Icg), e la parte indiana è stata amministrata per lo più da burocrati. Ora è stato assegnato il primo governatore dal 1967, il politico di lunga data Satya Pal Malik, ma non è più chiaro se i kashmiri vogliano uno stato separato o l’annessione al Pakistan. È irrealistico, tra l’altro, che Islamabad possa cedere la sua parte a un Kashmir indipendente e chi immagina uno stato “azad” non pensa che possano farvi parte il Jammu con la sua popolazione indù (67 per cento) e il Ladakh, detto anche “piccolo Tibet” per la grande presenza buddista sino-tibetana.
Il peccato originale che ha portato a questo groviglio risale alla decolonizzazione. Dal 1820 al 1947 l’intero Kashmir fu governato dai maharajah indù della dinastia Dogra. Nel 1947, quando i colonizzatori britannici lasciarono il subcontinente indiano, l’ultimo maharajah Hari Singh “sperava che il suo regno restasse indipendente. Era un territorio da molti secoli cementificato in prevalenza da un’unica lingua, il kashmiri (lingua dardica parlata in India e Pakistan, ndr) ma anche composto da tante micro-identità con i loro dialetti”, spiega Elisa Giunchi, docente di storia e istituzioni dei paesi musulmani alla Università statale di Milano. “Un territorio complesso – continua la professoressa – per religioni, islam, induismo, buddismo, ed etnie. Se si fosse rispettato il principio della spartizione, ovvero le zone a maggioranza musulmana al Pakistan e quelle indù all’India, la valle del Kashmir sarebbe stata annessa al primo, ma non fu così. Nella primavera del 1947 Singh dovette far fronte a un’insurrezione musulmana a Poonch e perse il controllo delle aree occidentali del regno. E quando a ottobre alcune milizie tribali del Pakistan cercarono di invadere la valle, chiese aiuto all’India per fermarle”. Singh continuò a governare ciò che rimase del regno, ma in cambio di quella richiesta di assistenza dovette firmare l’annessione all’India”.
Revival violento: lanci di pietre, “pellet guns”, sparizioni forzate
Già nel 2015 diversi analisti registrano un aumento dei militanti radicalizzati fra i giovani, che non hanno mai conosciuto la normalità della pace. Da quando sono nati, convivono con i militari e il rischio di abusi di ogni tipo, magari a danno dei loro cari. Questo risentimento può essere stato utilizzato dalle organizzazioni anti-governative per formare una nuova generazione di insorti. Nel luglio 2016 le forze di sicurezza indiane uccidono Burhan Wani, a soli 22 anni già leader del gruppo Hizbul Mujahideen, fondato in Kashmir nel 1989 e che aveva avuto legami con l’intelligence pachistana e con il signore della guerra afgano Gulbuddin Hekmatyar.
Antía Mato Bouzas, ricercatrice al Leibniz-Zentrum Moderner Orient di Berlino, è una delle maggiori esperte del conflitto: “Wani era molto popolare anche per l’uso che faceva dei social media e si stima che circa 200mila persone abbiano partecipato al suo funerale. La sua morte ha scatenato l’ira popolare”. Molti ragazzi sono tornati a lanciare pietre contro “l’occupazione indiana” nella loro “intifada kashmira”. La ricercatrice ricorda che già “a partire dal 2010 moltissimi giovani si sono mobilitati attraverso forme violente come il lancio delle pietre, lo stone pelting movement, ma molti hanno adottato anche pratiche non violente assumendo posizioni di merito sulle diverse questioni che riguardavano il rapporto con lo stato indiano”.
È in questi mesi che le forze indiane fanno un uso massiccio dei cosiddetti “pellet guns”, pistole a piombini o pallini: “Dovevano essere armi non letali per fare meno vittime possibili e, invece, non sono state usate dalla vita in giù. Hanno mirato sopra, alla testa e da distanze ravvicinate”. Così inizia il drammatico racconto di Camillo Pasquarelli, fotografo italiano che si trovava proprio a Srinagar per ultimare la sua tesi di antropologia. Lo scorso settembre Time ha pubblicato un reportage sulle vittime dei pellet guns con le sue foto. “Dal 2015 torno ogni anno. L’ultima volta ad agosto. Per ritrarre chi è rimasto completamente o parzialmente cieco, c’è voluto del tempo. Solo un anno dopo le proteste e la repressione, la gente ha cominciato a parlare”. Pasquarelli fotografa i suoi soggetti su sfondo nero, a rappresentare l’oscurità che li circonda. Accanto, una seconda foto mostra la radiografia del loro capo o della metà superiore dei loro corpi. I moltissimi puntini bianchi sono i piombini che rimarranno per sempre dentro di essi.
Dal luglio al dicembre 2016 i pellet guns hanno ferito oltre seimila persone. Fra queste, secondo Amnesty International, 782 hanno subito danni permanenti alla vista. Ma la Bbc riporta che ad oggi i feriti agli occhi sono addirittura tremila. Il grosso problema è che i pellet guns continuano a essere impiegati. Il 23 novembre 2018 Heeba, di soli 19 mesi, è stata la vittima più piccola a essere colpita agli occhi dai piombini. A causa di scontri nel quartiere fra militanti e soldati, il fumo dei lacrimogeni è entrato nella casa dove Heeba stava facendo colazione con la madre e il fratello di cinque anni. La bambina ha cominciato a vomitare e il piccolo non riusciva a respirare. Quando la donna li ha portati fuori da quella trappola, Heeba è rimasta ferita.
“Secondo i dati forniti da Greater Kashmir, un giornale regionale che gode di una buona reputazione nella Valle, si stima che dalla repressione del 2016 siano morte 130 persone, quattordicimila siano state ferite (di cui 7.500 con pallini di metallo) e settemila siano state incarcerate sulla base del Public Safety Act”, aggiunge Antía Mato Bouzas. L’analista, che di recente ha attraversato il Kashmir pachistano, spiega: “Questa repressione va in controtendenza rispetto alla politica dei governi indiani più recenti e alle politiche di normalizzazione perseguite dallo stato del Jammu & Kashmir. Questo deterioramento può essere ricondotto, in parte, anche al cambiamento del governo del Jammu & Kashmir nel 2014. Nello stesso periodo si è registrata anche una maggiore conflittualità lungo la linea di controllo”.
Bouzas ha parlato con le famiglie divise dal conflitto e di tutte le violazioni dei diritti umani, sparizioni forzate, uccisioni e arresti sommari, traumi, dice: “Le responsabilità sono proporzionali al grado di potere che si esercita”. L’Association of parents of disappeared persons (Apdp) avrebbe calcolato dal 1989 a oggi un numero compreso fra gli ottomila e i diecimila casi di “desaparecidos” kashmiri. I parenti delle vittime si riuniscono il giorno 10 di ogni mese nelle piazze per chiedere che cosa ne è stato dei loro famigliari. Ricordano che si tratta di crimini contro l’umanità per lo più ad opera delle forze di sicurezza di confine, degli altri militari e poliziotti indiani. “Non vogliano soldi o un impiego per risarcimento. Vogliamo solamente indietro i nostri figli. Protesteremo finché non ci daranno risposte su dove siano”, dicono all’unanimità.
Una pace lontana
Per l’attivista indiana Iffat Fatima, che di recente ha presentato al Festival dei cinema dei diritti umani di Napoli il suo documentario Blood leaves its trail, non ci può essere soluzione del conflitto senza demilitarizzazione. Tuttavia, per Bouzas la prospettiva di pacificazione sembra ora più lontana che in passato: “Sarebbe stato più facile raggiungere un accordo fra India e Pakistan in passato rispetto a oggi. La natura delle personalità politiche al potere ha una sua importanza: Imran Khan è arrivato al potere in agosto e dice che vuole aprire un dialogo con l’India. Il governo di Narendra Modi (dirigente del partito fondamentalista indù BJP, ndr) ha detto che vuole riallacciare il processo di dialogo col Pakistan ma il suo atteggiamento è poco credibile. Gli attuali leader di India e Pakistan sono il riflesso di movimenti nazionalisti di stato che presentano certe somiglianze (pur nella differenza dei contesti) con quelli che hanno preso piede in Europa e negli Stati Uniti in questi ultimi anni”.
Non ci può essere pace senza demilitarizzazione, ma anche senza i kashmiri. “Credo che nelle circostanze attuali, ipotizzare una soluzione del conflitto sia molto difficile anche perché lo stato indiano non ha mai voluto affrontare sin’ora la questione delle vittime”, insiste Bouzas. “La risoluzione del conflitto non può passare unicamente da un accordo tra stati, il consenso va costruito anche nelle società coinvolte sia nella parte controllata dall’India che in quella controllata dal Pakistan”.
Il conflitto per l’acqua, la natura a rischio e il turismo in discesa
“Nei territori kashmiri contestati sgorgano fiumi importanti sia per il Punjab indiano che per quello pachistano”, ricorda Elisa Giunchi dell’Università statale di Milano. “La volontà indiana di costruire alcune dighe, priverebbe il Pakistan di risorse idriche per l’agricoltura”. Le dispute per il cosiddetto “oro blu” sono confermate anche dall’International crisis group: “L’India, con la sua popolazione più ampia e un aumento a macchia d’olio di bisogni energetici, utilizza molte più acque condivise. Le sue necessità domestiche stanno crescendo, mentre il Pakistan (ancora un paese in gran parte rurale, ndr) dipende sempre di più da esse per il settore agricolo. La questione delle dighe indiane nel bacino del fiume Indo è cruciale sia per l’esercito di Islamabad che per i jihadisti”.
A complicare la situazione, ci sono anche i cambiamenti climatici che minacciano l’immenso bacino dell’Indo esteso a ben quattro Paesi: Cina, India, Afghanistan e Pakistan. I ghiacciai dell’altopiano tibetano, dove il fiume nasce, si stanno sciogliendo. “La stagione turistica si è allungata. Quest’anno (nel 2018, ndr) ha chiuso a novembre per il caldo prolungato”, dice al telefono Marco Vasta, classe 1949, con moltissimi viaggi e pubblicazioni alle spalle su Himalaya, Karakorum, Tibet. “Mi reco in Kashmir dagli anni Ottanta, soprattutto in Ladakh. A Srinagar, così militarizzata, non ho più voluto accompagnare gruppi. E, poi, è diventata enorme, stravolta dall’urbanizzazione. Anche Leh, capitale del Ladakh, si sta modernizzando, ma meno. Serve un equilibrio. Certamente, questi luoghi hanno bisogno di servizi. Poiché per raggiungere la parte remota dello Zanskar servono quattro giorni a piedi, si sta pensando di trasferire gli abitanti giù a valle”.
Secondo i rapporti, il turismo nel 2018 è molto diminuito a causa delle violenze in Jammu&Kashmir. Le prenotazioni in hotel si sarebbero ridotte al 10-15 per cento rispetto al 40 per cento del 2017. “È vero, ma bisogna considerare che il turismo è soprattutto indiano. Di stranieri, occidentali se ne vedono pochi”, continua Vasta. “Di solito gli arricchiti indiani si recano prima a Srinagar, per alloggiare nelle antiche case sull’acqua, e in seguito vengono in Ladakh. Purtroppo, questo turismo ‘pago e pretendo’, privo di coscienza sostenibile, ha contribuito all’inquinamento. Hanno dovuto smantellare i camping costruiti su un lago e si dice che Tesla costruirà tre inceneritori per lo smaltimento della spazzatura”.
Nel frattempo, subito dopo il caldo anomalo, a novembre fortissime nevicate hanno distrutto i campi di mele. Nel sud del Kashmir indiano è andato perso il 20 per cento del raccolto. In uno stato, dove non si registrano i picchi di povertà del resto dell’India, 2,5 milioni di persone su 7 milioni dipendono direttamente o indirettamente dall’orticoltura. Per alcuni contadini si è trattato di una “catastrofe”. E, dunque, la gioventù, sembra sempre più spaccata, tra chi cerca fortuna proprio in India, iscrivendosi all’università o emigrando per un impiego, e chi ancora si arruola fra i militanti.
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