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Dov’è finita la legge sul commercio equo e solidale in Italia
A quasi otto mesi dall’approvazione alla Camera dei Deputati, la prima legge italiana dedicata al commercio equo e solidale sembra finita su un binario morto.
Era il 3 marzo 2016 quando la Camera dei deputati approvava con 282 voti favorevoli e solo 4 contrari la proposta di legge 2272 Disposizioni per la promozione e la disciplina del commercio equo e solidale. Un voto salutato con entusiasmo da quanti credono in un commercio internazionale basato sulla cooperazione e sul rispetto dei produttori del Sud. Peccato che da allora – sono passati otto mesi – il progetto giaccia in un cassetto, in attesa che il suo esame venga messo all’ordine del giorno dei lavori del Senato.
Una definizione e mezzi per promuovere il commercio equo
La proposta di legge porta la firma di Ermete Realacci, Simonetta Rubinato, Pier Paolo Baretta e Marco Da Villa ed è stata sostenuta da Equo Garantito, l’associazione di categoria che raccoglie le organizzazioni di commercio equo e solidale italiane, Fairtrade Italia e l’Associazione Botteghe del Mondo. Il testo – composto in tutto da diciassette articoli – innanzitutto fornisce una definizione ufficiale di commercio equo, che precisa il ruolo dei differenti attori della filiera. Inoltre inscrive nella legge, qualora venisse approvato definitivamente, i principi alla base delle certificazioni e in particolare il “prezzo equo” pagato al produttore, tale cioè da consentire il pagamento di un salario degno ai lavoratori ma anche di investire nel miglioramento della qualità del prodotto e dei processi e nella riduzione dell’impatto ambientale. A tutela dei valori del commercio equo e del consumatore da possibili abusi, la legge istituisce un elenco nazionale delle organizzazioni del commercio equo, gestito da una commissione ad hoc presso il ministero dello Sviluppo economico. La legge prevede ugualmente un ruolo attivo di promozione del commercio equo da parte dello Stato, in particolare nelle mense e nei servizi di ristorazione delle amministrazioni pubbliche. Un fondo per il commercio equo e solidale è istituito con una dotazione di 1 milione di euro all’anno.
Il commercio equo già riconosciuto sul territorio
La proposta di legge 2272, il cui iter parlamentare è cominciato nel 2014, non è che l’ultimo di una lunga serie di tentativi di dare un inquadramento legale al commercio equo in Italia. La prima proposta di legge in materia risale a 10 anni fa, era l’ottobre 2006, ad opera dell’Associazione interparlamentare per il commercio equo promossa da Ermete Realacci. Di fronte all’inerzia del Parlamento però, in questi anni molti territori hanno deciso di prendere l’iniziativa legiferando a livello locale. È il caso ad esempio della regione Toscana, pioniera in materia con una legge regionale sul commercio equo in vigore dal 2005. Negli anni successivi, una decina di regioni, dal Trentino alla Puglia, e altrettanti comuni hanno seguito l’esempio.
Il commercio equo e solidale in Italia
Ogni italiano spende in media ogni anno un euro e cinquanta centesimi in prodotti del commercio equo. Pochissimo. In Europa, l’Italia è davanti soltanto a Spagna e Repubblica Ceca per spesa pro capite in commercio equo. Lontano anni luce dal podio occupato da Svizzera (58 euro), Irlanda (50 euro) e Regno Unito (38 euro). Consolazione: il mercato italiano si conferma di anno in anno in crescita. Fairtrade, il principale marchio di certificazione del commercio equo al mondo – quello dell’omino nero su sfondo verde e blu – nel 2015 ha fatturato nel nostro paese 99 milioni di euro di vendite. Si tratta di una progressione del 10 per cento per le 145 aziende certificate Fairtrade che commercializzano, essenzialmente nella grande distribuzione, circa 700 prodotti diversi, dalle banane (10mila tonnellate nel 2015, 50 per cento del volume complessivo) al caffè passando per il cotone.
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