A Milano un murale intitolato “Respiro” ha l’obiettivo di dare un tocco di verde in più alla città e non solo.
Marco Gualazzini. Professione fotoreporter, nell’Africa più dimenticata
Marco Gualazzini, fotoreporter, si racconta a LifeGate, dopo dieci anni di lavoro in Africa. L’occasione è la presentazione del libro Resilient e della mostra omonima a Milano.
“Nel 2003 andai in Afghanistan, ma bucai tutte le foto. Arrivare in un posto non significa saper lavorare”. Esordisce così Marco Gualazzini, mentre commenta le immagini che lo circondano. La mostra Resilient, al Forma Meravigli di Milano fino al 24 marzo 2019, raccoglie i suoi primi dieci anni di fotoreportage in Africa. In molti Paesi, tra i quali Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Mali, Sudan, Nigeria, Ciad, ha ritratto persone che vivono, senza farsi sopraffare, in alcuni dei luoghi più dimenticati dai mass media e dalla cosiddetta comunità internazionale.
I “resilienti” africani fronteggiano guerre, abusi, miseria, desertificazione, perdita dei propri famigliari, attentati. Come? Gualazzini non ha una risposta, sempre che esista. Di certo, molti dei bambini, delle donne e degli uomini ritratti non hanno conosciuto altro. Si adattano alla loro condizione. “Le mie foto sono una testimonianza, ma ogni volta che torno in Italia provo un senso di sconfitta. Come se non approfondissi mai a sufficienza”, confida l’autore.
Nell’epoca dei social, in cui tanti si improvvisano giornalisti, artisti o fotografi, Gualazzini si mette sempre in discussione. A 42 anni, ha pubblicato su molte testate italiane e internazionali – come Der Spiegel, Sunday Times Magazine, Paris Match, New York Times, Al Jazeera – ma non dimentica la gavetta nel quotidiano della sua città, la Gazzetta di Parma.
Marco Gualazzini, la professionalità è una ricerca continua
“Tornato dall’Afghanistan, capii che dovevo imparare sul campo. Dalle basi. Non mi bastavano la laurea in Conservazione dei beni culturali e gli studi con il professore Gianluigi Colin, art director del Corriere della Sera. Non bastava la mia passione per James Nachtwey, Gilles Peress, Sebastião Salgado e gli altri grandi fotoreporter con cui ero cresciuto negli anni Novanta”.
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Davanti all’immagine di due donne nel lago Ciad, che si è ridotto del 90 per cento a partire dagli anni Sessanta, Gualazzini dice: “Nel primo servizio per la Gazzetta, dovevo ritrarre dei paletti divelti. Mi sentivo frustrato, ma al tempo stesso sapevo che la cronaca quotidiana era l’unica palestra possibile. Mentre coprivo Miss Italia, gli incidenti stradali, le fiere, rimaneva la tensione di andare. Infatti, mi ritrovavo in vacanza in posti assurdi e a gestire altri fallimenti. Come quella volta che ad Haiti il mio contatto, un padre missionario, fu rapito e rilasciato mentre io stavo arrivando. Il religioso, una volta liberato, venne direttamente da me e mi disse di tornare in Italia. Era troppo rischioso”.
Il lavoro sul Ciad è il più recente. Nel Paese dell’Africa centrale, è in corso una grave crisi umanitaria, con almeno 130mila sfollati interni e 440mila rifugiati, soprattutto nigeriani, centrafricani e sudanesi in fuga da conflitti e persecuzioni. Carestia e fame affliggono oltre due milioni di persone e dipendono in larga parte dai cambiamenti climatici. “Molti ciadiani vivono sugli atolli del lago o intorno a quel che resta di esso. In alcune aree lacustri, però, l’acqua non è potabile e il pesce scarseggia. Di questa situazione approfittano i militanti terroristi di Boko haram (organizzazione estremista islamica nata nel 2002 nel nord della Nigeria, ndr), che sugli atolli reclutano con false promesse o rapiscono dei potenziali combattenti”.
Aggiunge Gualazzini: “Quel ragazzo ha 26 anni ed è un pentito di Boko haram. Mi ha raccontato che dopo essersi reso conto di aver ucciso degli innocenti è scappato. I fuoriusciti vengono detenuti per un periodo in un centro statale, da dove parte un processo di de-radicalizzazione e reinserimento nella comunità. Il governo del Ciad prima deve assicurarsi che non fingano e non tornino ad arruolarsi come kamikaze, poi interloquisce con il capo villaggio, i genitori, affinché gli ex militanti possano rientrare a casa”.
Una delle foto, sulla quale i visitatori si soffermano di più è quella di Maria Hassan, una giovane madre velata con in braccio il figlio neonato: “È stata rapita da Boko haram. Il bambino è di un combattente. In qualche modo è riuscita a fuggire, ma su di lei incombe lo stigma delle violazioni subite”. Nella didascalia si legge che Maria si fa chiamare “donna senza passato”.
Un’altra storia, quasi ignota in occidente, è quella dei bambini orfani “che si muovono in branco. Come dei randagi, gli Almajiri si spostano in gruppo, sempre uniti, quasi a ricomporre una famiglia, percorrendo diversi Paesi africani. Quel ragazzino – spiega Gualazzini, indicandolo – si trova davanti a un murales disegnato con i compagni”. Sulla parete ocra, calcate col gesso nero, tante armi, qualche scritta e alcune gazzelle.
Marco Gualazzini, l’importanza del reportage nell’era dei social network
La mostra Resilient e l’omonimo libro edito da Contrasto appaiono come un omaggio al reportage. Osservando le foto in prima persona, si comprende come questo strumento giornalistico, nato all’inizio del secolo scorso, sia ancora vivo, potente. Dopo un decennio di esaltazione delle news istantanee e di riduzione degli spazi mediatici dedicati all’approfondimento, forse il trend si sta invertendo. Molti fotoreporter lo sperano, anche se condizioni di lavoro sempre più precarie non possono garantire gli standard di sicurezza necessari in alcuni luoghi del mondo. Gualazzini spiega: “È molto pericoloso recarsi in guerra o al centro di crisi umanitarie. Spesso, noi fotografi siamo come dei target. Certamente, ho paura. Quando scendo dall’aereo, penso sempre di lasciare questa professione. Tuttavia, col tempo, sul bisogno di avventura e adrenalina, è prevalso un dovere morale. Bisogna sapere che in Somalia, dove sono tornato varie volte, non ci si muove senza scorta. Ogni precauzione di sicurezza va presa, anche se non puoi controllare tutto”.
“Una sera uscii – continua – con altri giornalisti, su un’utilitaria. Volevamo vedere qualcosa in più della quotidianità dei somali, visto che fino ad allora non ci eravamo fermati in un posto più di 15 minuti. Ovvero, il tempo calcolato per un commando di arrivare, rapire o uccidere”. E che cosa accadde? “Ci ritrovammo intorno a uno stadio gremito e illuminato a giorno. È stato incredibile vedere tanti somali divertirsi per una partita fra squadre locali. E io, mi sono sentito esposto. Tutti sapevano che ero lì. Bianco, con i consueti abiti stile Indiana Jones del reporter occidentale. In quel momento, non ho scattato, è stato lo stadio a guardare me”.
Immagine di copertina: Bambini orfani raccolgono acqua nel lago Kivu, Repubblica Democratica del Congo, Goma. 2017. Foto inedita per LifeGate © Marco Gualazzini / Contrasto
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