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Il nuovo film di Mark Ruffalo, Cattive acque, racconta la vera storia dell’inchiesta dell’avvocato Rob Bilott contro la multinazionale Dupont.
Il Pfoa è una sostanza chimica creata negli Stati Uniti a scopo militare. Fu portata nelle case degli americani da alcune aziende, tra cui la Dupont, un colosso chimico statunitense che, rinominando la sostanza in C-8, brevettò un rivestimento impermeabile per le padelle. Ovvero, il teflon: “Un simbolo splendente dell’ingegnosità americana”. Così spiega Rob Bilott, il protagonista di Cattive Acque, “l’avvocato che diventò l’incubo peggiore della Dupont” (come recita il titolo dell’articolo del New York Times, da cui il film è tratto) che, da difensore dell’azienda, diventò suo accusatore, con una causa iniziata negli anni novanta e che durò per ben 19 anni.
Perché, della dannosità del teflon (dai tumori a possibili danni al dna), si sapeva sin dalla sua nascita, ma i test vennero oscurati e le prove sabotate. Così la Dupont continuò a lavorare per anni, tra danni fisici e ambientali. L’azione di Bilott diede quindi l’inizio allo scandalo, dopo che l’acqua potabile dei cittadini della Virginia venne contaminata da smantellamenti incontrollati, causando numerosi decessi di animali e danni agli abitanti delle zone.
Un film tra il racconto di cronaca e l’opera morale. Ambientato tra la città e la provincia americana. Dove, se in quest’ultima si è mossi da un istinto di sopravvivenza, nell’altra vince l’individualismo. Motivo per cui l’avvocato sceglie, in contrasto, l’etica. Il gesto di un singolo per la collettività. Che tanto appassiona l’attivismo ambientalista di alcune celebrità come Mark Ruffalo (produttore, oltre che attore protagonista) il cui intento è quello di “battersi per chi vive in cattive acque”. Ma, come ci suggerisce il regista Todd Haynes, dall’inizio alla fine del film – con un utilizzo selettivo di luci calde in opposizione ad un eccessivo blu scuro, notturno, profondo – dentro queste acque ci viviamo da tempo. In apnea da capitalismo, lontani dalla luce (quella calda degli uffici, dei piani alti), e lontani da quell’ossigeno necessario, almeno per sopravvivere.
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