La Cop16 sulla biodiversità si conclude con pochi passi avanti. Cosa resta, al di là della speranza?
Si è conclusa il 2 novembre la Cop16 sulla biodiversità, in Colombia. Nonostante le speranze, non arrivano grandi risultati. Ancora una volta.
Un nuovo studio conferma che il controllo dei predatori selvatici con metodi non violenti è più efficace del loro abbattimento.
L’importanza biologica ed ecosistemica dei grandi predatori è stata ormai ampiamente dimostrata. Le specie che si trovano al vertice della catena alimentare svolgono un ruolo fondamentale che ha ripercussioni su tutti i livelli successivi, dagli erbivori alle piante. Eppure ancora oggi in tutto il mondo lupi, puma, linci, coyote e orsi vengono uccisi, per proteggere i capi di allevamento e in nome di ataviche paure e perché, in fondo, è più facile premere un grilletto che cercare di imparare a coesistere.
L’inefficacia degli abbattimenti è stata provata ancora una volta da uno studio pubblicato sulla rivista Plos One e condotto in Michigan, negli Stati Uniti, tra il 1998 e il 2014. I ricercatori hanno esaminato due metodi di intervento adottati dal governo in seguito a episodi di predazione dei lupi ai danni di animali domestici. Il primo prevede l’abbattimento selettivo dei lupi avvistati nei pressi del luogo dove è avvenuta la predazione, mentre il secondo l’utilizzo di metodi non letali. Gli autori dello studio ritengono che il ricorso agli abbattimenti non si è rivelato efficace per ridurre il rischio di nuovi attacchi nelle vicinanze.
I ricercatori hanno inoltre cercato di spiegare la diffusa e non comprovata idea che gli abbattimenti siano efficaci per ridurre gli attacchi al bestiame. Dei benefici potrebbero effettivamente esserci, spiegano, ma solo per una piccola minoranza di allevatori. Gli allevatori circostanti potrebbero invece subire un aumento degli attacchi, ma anziché pensare che il problema possa essere legato ai precedenti abbattimenti, chiederebbero a loro volta l’abbattimento dei lupi della zona.
Risultati analoghi sono stati documentati da uno studio pubblicato nel 2016 sulla rivista Frontiers in Ecology and the Environment. I ricercatori, un team di scienziati provenienti da Stati Uniti, Slovenia e Sudafrica, hanno analizzato dati relativi ai tassi di predazione sugli animali d’allevamento provenienti sia dagli Stati Uniti che dall’Europa, dimostrando che i deterrenti più efficaci non prevedono l’abbattimento del predatore. Nella maggior parte dei casi esaminati l’utilizzo di deterrenti letali non ha ridotto la predazione, al contrario, in alcuni casi sono state registrate perdite maggiori di bestiame nel periodo successivo rispetto all’abbattimento dei predatori. Entrambi gli studi hanno concluso che i metodi che si sono rivelati più efficaci sono quelli non letali, come l’utilizzo di cani da pastore e il flandry, un deterrente visivo costituito da una corda alla quale sono fissate strisce di tessuto rosse ben visibili.
Negli Stati Uniti i predatori, il cui numero è già estremamente ridotto rispetto pochi decenni fa, vengono abbattuti senza soluzione di continuità. Solo nel 2014, secondo i dati riportati dal programma Wildlife Service del dipartimento dell’Agricoltura, sono stati uccisi 2,7 milioni di animali per controllare le popolazioni di predatori, tra cui 580 orsi neri, 796 linci , 305 puma, 61.702 coyote, 1.186 volpi rosse, e 322 lupi, per un costo di circa 127 milioni di dollari.
I proprietari di bestiame ricorrono solitamente a diversi metodi, sia letali che non, per proteggere i propri animali dai predatori selvatici. I metodi letali includono la caccia, l’abbattimento di intere cucciolate, l’avvelenamento e il trappolaggio. I metodi che non prevedono l’uccisione dell’animale comprendono invece l’utilizzo di cani da pastore, esche per tenere lontani i predatori e la sterilizzazione. Secondo lo studio Predator control should not be a shot in the dark, tali metodi vengono utilizzati senza prendere prima in considerazione i dati sperimentale sulla loro efficacia.
La spiegazione, secondo gli autori della ricerca, risiede probabilmente nel fatto che i metodi di controllo dei predatori per prevenire la perdita di bestiame sono stati raramente oggetto di studi scientifici rigorosi. Per contrastare gli attacchi da parte di canidi, felini e ursidi in Nord America e in Europa è pertanto necessario valutare ogni volta i dati e gli studi condotti in precedenza. “I predatori sono una risorsa pubblica – ha dichiarato Adrian Treves del Nelson Institute for Environmental Studies dell’Università del Wisconsin – la loro distruzione non può essere intrapresa alla leggera, senza prove che ne attestino l’efficacia, né per il solo beneficio di una ristretta minoranza di persone, come gli allevatori”.
Negli Stati Uniti l’abbattimento controllato di alcuni esemplari di grandi carnivori minacciati per contrastare il bracconaggio ha fallito, come rivela uno studio condotto da Adrian Treves dell’Università del Wisconsin e Guillaume Chapron dell’Università svedese di Scienze agrarie. “Permettere la caccia al lupo aumenta le probabilità di episodi di bracconaggio, anziché diminuirle”, aveva concluso lo studio.
I ricercatori sostengono che per proteggere con efficacia il bestiame andrebbero migliorati e regolamentati i metodi di dissuasione non violenti, stabilendo una sorta di standard da seguire. Per questo consigliano una formazione continua per i gestori della fauna, in modo da tenerli aggiornati con le ultime scoperte scientifiche e per sospendere tempestivamente quei programmi di controllo dei predatori che si rivelano inefficaci. “I metodi non letali efficaci conservano il bene pubblico, proteggendo al tempo stesso il bestiame privato”, ha concluso Treves. Ci auguriamo che un maggiore rigore scientifico venga utilizzato anche in Italia, dove il lupo è tornato ad essere considerato una minaccia e potrebbe essere applicata una deroga alla legge europea che lo protegge, autorizzandone la caccia.
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