Il dramma che vive la città di Valencia è soltanto un assaggio di ciò che rischiamo senza un’azione immediata e drastica sul clima.
Monique Barbut. Contro la desertificazione puntiamo sul piccolo e locale
Il rapporto tra desertificazione e cibo, cambiamenti climatici, migrazioni e lavoro nell’intervista alla vicesegretaria generale delle Nazioni Unite e segretaria dell’Unccd Monique Barbut.
Monique Barbut è vicesegretaria generale delle Nazioni Unite (Onu) e segretaria esecutiva della United Nations Convention to Combat Desertification (Unccd), l’agenzia Onu che si occupa della lotta alla desertificazione. La sua è una battaglia complessa, contro un fenomeno – quello della degradazione del suolo – che non sempre riempie le prime pagine dei giornali. Ma che ha, in realtà, un grande impatto sull’ambiente, sul clima e sulle comunità locali.
Qual è la definizione di desertificazione adottata dall’Unccd e che differenza c’è con i semplici deserti?
Nel nostro lavoro, la desertificazione è definita come la perdita di produttività delle terre in ragione delle attività umane, il tutto aggravato dagli effetti dei cambiamenti climatici. Questi sono dunque deserti creati dall’uomo, a differenza dei deserti naturali, come quello del Sahara.
Il problema è sempre più drammatico in tutto il mondo. Quali sono le cifre-chiave del fenomeno e le principali conseguenze per i popoli che lo subiscono?
Su scala mondiale, ormai il 30 per cento delle terre risulta degradato (concentrandoci sulle terre agricole, la quota sale al 52 per cento). Su tali aree vivono 1,3 miliardi di persone. Se questo fenomeno dovesse proseguire in modo incontrollato, rappresenterebbe un rischio elevato e diretto per 500 milioni di piccole aziende che forniscono i mezzi di sussistenza – in termini di lavoro, cibo e reddito – ad oltre due miliardi di persone. Il continente più colpito, in questo senso, è quello africano: si tratta dell’area nella quale la situazione risulta più grave. Non a caso, la maggior parte dei migranti irregolari che arriva in Europa proviene da queste zone.
Monique Barbut, Executive Secretary of @UNCCD, spoke in her speech #GLFBonn2017 about how ‘we have lost 20% of our #ecosystems to degradation’. #Soil is a massive carbon storage, degradation of it leads to #GHG. More on: https://t.co/8O7qWC2esm #ThinkLandscape #GLFBonn2017 pic.twitter.com/DZ8AGIhhGF
— GLF (@GlobalLF) January 1, 2018
Proprio in materia di migrazioni, quali sono le previsioni per il futuro?
Riteniamo che circa 135 milioni di persone possano essere costrette ad abbandonare le proprie terre entro il 2045. Secondo il ministero della Difesa del Regno Unito, circa 60 milioni tenteranno di emigrare in Europa.
Cambiamenti climatici, agricoltura intensiva, inquinamento: a chi vanno attribuite le principali responsabilità della desertificazione?
In generale, le attività umane sono senz’altro il principale motore della degradazione delle terre. Nello specifico, l’espansione dell’agricoltura intensiva rappresenta il fenomeno più critico, per due ragioni: innanzitutto, perché colpisce un grande numero di persone considerate già in situazione di vulnerabilità. In secondo luogo, perché si tratta della forma di degradazione che sarebbe più facile da evitare. Ma manca ancora la volontà politica di cambiare le cose.
Si tratta dunque di fenomeni reversibili? Esistono degli esempi virtuosi in questo senso?
Assolutamente sì, si possono citare molti esempi positivi. Si può evitare la degradazione delle terre scegliendo delle pratiche di gestione sostenibile delle stesse. Esistono centinaia di approcci utili che sono stati adottati in Niger, Burkina Faso, Senegal e Etiopia. È inoltre possibile invertire e prevenire la desertificazione grazie ad una buona pianificazione dello sfruttamento del territorio: ad esempio controllando l’espansione urbana che in alcuni casi finisce per colpire terre agricole molto produttive.
“What we are doing to the land is like a slow motion suicide” saud Monique Barbut @UNCCD Landscape restoration needs to look into small scale producers as they are backbone of food production. @giz_gmbh @BMZ_Bund #GLFBonn2017 #ThinkLandscape pic.twitter.com/qPvf4BArwb — UNCCD (@UNCCD) December 20, 2017
L’agricoltura intensiva pone spesso problemi ambientali. Ma tra qualche decennio la popolazione mondiale arriverà a 10 miliardi: come si potrà fare per nutrire l’intera umanità?
La produzione delle piccole attività agricole sostiene oggi gran parte della popolazione mondiale. Esse giocheranno un ruolo cruciale, forse il più importante, nella prospettiva di garantire cibo ai 10 miliardi di esseri umani che abiteranno la Terra nel 2050. La realtà è che non potremo rispondere alla domanda alimentare futura, e al contempo alle sfide ambientali mondiali, senza investire nelle piccole realtà. Ma queste ultime avranno anche bisogno di meccanismi di sviluppo efficaci, che le aiutino ad accedere alle conoscenze, alle consulenze tecniche, al credito, alle infrastrutture e a tutte le riscorse di cui necessiteranno al fine di produrre cibo in modo sostenibile.
In questo modo potremo accrescere la produzione, creare posti di lavoro green, rafforzare la resistenza ai fenomeni meteorologici estremi e permettere alle famiglie costrette e fuggire dalle loro terre di ritornarvi. Le faccio un esempio concreto: il miglioramento della gestione delle terre e dell’acqua su soltanto il 25 per cento dei 300 milioni di ettari disponibili in Africa si tradurrebbe in un aumento della produzione agricola pari a 22 milioni di tonnellate. Il potenziale è dunque enorme e particolarmente attrattivo per gli investitori, sia pubblici che privati. È proprio per questo scopo che è nato il Land degradation neutrality fund.
Ritiene che il problema della desertificazione sia preso sufficientemente in considerazione? Nell’Accordo di Parigi, ad esempio, la questione non è menzionata…
È stato necessario parecchio tempo perché i governi riconoscessero che le iniziative di lotta alla desertificazione, alla degradazione delle terre e alla siccità contribuiscono significativamente a limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 2 gradi centigradi. Da un lato una quota della CO2 eccedente potrebbe essere immagazzinata nel suolo; dall’altro si salvaguarderebbe la produttività delle terre (qualunque sia il riscaldamento dell’atmosfera al quale andremo incontro).
Alla Cop 21 di Parigi è stato riconosciuto il ruolo degli ecosistemi terrestri nell’attenuazione dei cambiamenti climatici e, per la prima volta, è stata sottolineata la capacità della terra di trattenere il biossido di carbonio. Si tratta di avanzamenti importanti: l’obiettivo è far sì che la gestione sostenibile del suolo diventi una priorità mondiale.
Restaurare le terre degli ecosistemi degradati significa consentire agli stessi di assorbire fino a tre miliardi di tonnellate di CO2 all’anno. Ovvero fino al 30 per cento delle emissioni generate ogni anno dall’uso di combustibili fossili. È così che potremo contribuire in modo decisivo a centrare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.
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