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7 anni di carcere ai reporter Reuters arrestati in Myanmar, dove il giornalismo resta un crimine
La condanna di due reporter della Reuters in Myamnar ci riporta ai tempi bui della giunta militare e all’arresto del giornalista Win Tin, mentore di Aung San Suu Kyi.
I due reporter di Reuters condannati a sette anni di carcere in Myanmar (ex Birmania) hanno trent’anni. Gli stessi anni che ha impiegato Aung San Suu Kyi per far transitare il suo Paese verso una reale democrazia, senza riuscirci. L’età dei giornalisti birmani Wa Lone (32) e Kyaw Soe Oo (28) corrisponde al tempo delle lotte birmane contro la dittatura militare, iniziate con le rivolte studentesche del 1988 e la discesa in campo quello stesso anno del Nobel per la Pace.
Gli stessi Wa Lone e Kyaw Soe Oo, probabilmente, sono cresciuti sognando di vivere in un Paese dove fosse libero esprimersi, ma hanno dovuto ricredersi dopo la sentenza durissima che il 3 settembre li ha incriminati per “violazione di segreti di Stato”. La loro vicenda è emblema di come il tempo delle lotte per i diritti fondamentali sia degenerato in una transizione non solo complessa (com’era prevedibile) ma anche violenta. La stessa Aung San Suu Kyi li ha giudicati “colpevoli” ancor prima che il tribunale di Yangon (la capitale economica e culturale del Myanmar) si pronunciasse.
30 anni di Birmania: dalle lotte democratiche alla caccia ai rohingya
Secondo la ricostruzione dei giornalisti medesimi, della Reuters e di altri testimoni chiave, i due giornalisti d’inchiesta sarebbero caduti in una trappola. Un poliziotto si sarebbe offerto di incontrarli in un ristorante per consegnare loro un plico e farli catturare subito dopo dagli uomini del battaglione 8 di Yangon. Mentre li portavano via, fra le mani avevano dei documenti che non avevano avuto il tempo di esaminare e che non contenevano segreti governativi, come sostenuto da governo e tribunale. Si sarebbe trattato di prove prefabbricate, tra l’altro piuttosto rozzamente.
Perché, dunque, sono stati arrestati e condannati? La verità di questa detenzione illegale risiede nella spirale di persecuzioni che dal 2012 ha colpito un milione di musulmani di etnia rohingya e ha causato l’esodo di 700mila persone in pochi mesi. La maggior parte dei profughi è fuggita lo scorso anno nel vicino Bangladesh, da fine agosto a novembre. Dopo un attacco di alcuni guerriglieri rohingya (Arsa) a delle postazioni militari, la reazione dell’esercito birmano (Tatmadaw) e di squadroni buddisti dello stato del Rakhine è stata talmente grave da essere denunciata come “pulizia etnica” dalle Nazioni Unite. Alcuni generali saranno anche indagati per “genocidio”.
Wa Lone e Kyaw Soe Oo stavano completando un’inchiesta giornalistica proprio sui crimini commessi contro la popolazione Rohingya. L’agenzia di stampa Reuters lo ha provato pubblicando il materiale che avevano raccolto sul massacro di dieci civili musulmani compiuto il 2 settembre 2017 da militari birmani ed estremisti buddisti del Rakhine, nel villaggio di Inn Dinn. Lo stesso esercito birmano, ha ammesso che queste esecuzioni sono state compiute condannando sette soldati a dieci anni di prigione.
Leggi l’inchiesta di Wa Lone e Kyaw Soe Oo sul massacro in Myanmar
I paradossi di Aung San Suu Kyi al governo
È paradossale che nella prigione di Insein siano rinchiusi due giornalisti che erano giunti alla verità. È ancor più paradossale perché Aung San Suu Kyi conosce bene questo luogo di detenzione alla periferia di Yangon. L’attuale leader de facto ha trascorso quindici anni agli arresti domiciliari, ma per un breve periodo fu rinchiusa anche a Insein: un fatto che generò sgomento e preoccupazione nella comunità internazionale e tra le organizzazioni umanitarie, come Amnesty International. Insein è sinonimo di migliaia di prigionieri politici, torture, abusi. Tanti sono stati i compagni di lotta e sostenitori di Suu Kyi qui internati. Tra i suoi amici più fedeli, si ricorda il giornalista Win Tin, cofondatore assieme a lei del partito Lega nazionale per la democrazia (Nld, National league for democracy). Vi rimase per 18 anni consecutivi, uscendo ormai anziano, a 78 anni.
“Sono davvero triste perché la persona che noi abbiamo tanto ammirato per tutta la nostra vita non ci ha capiti”, ha detto la moglie di Wa Lone parlando di Aung San Suu Kyi. In agosto Pan Ei Mon ha partorito un bambino che il padre non ha ancora potuto conoscere. “Durante la gravidanza ho cercato di essere forte, sperando che Wa Lone fosse rilasciato. Ma dopo il verdetto, le mie aspettative sono distrutte”. Anche la compagna di Kyaw Soe Oo, madre della loro bambina di tre anni, ha aggiunto in lacrime: “Sono solamente dei giornalisti. Facevano il loro lavoro”. È inevitabile cercare nei volti di queste due giovani madri qualche espressione della giovane Aung San Suu Kyi, che per la sua patria e e la sua attività politica lasciò il marito e i due figli in Gran Bretagna.
Vero anche che Suu Kyi è molto diversa da questa gioventù. Lei, nata nel 1945, è figlia del generale Aung San, uno dei padri della nazione che negoziò l’indipendenza dal Regno Unito, ma fu anche il fondatore dell’esercito birmano. Khin Kyi, la madre, fu ambasciatrice in India. Da ragazza, Suu Kyi studiò a Oxford e lavorò alle Nazioni Unite. E come il padre, assassinato poco dopo l’indipendenza, conserva una concezione nazionalista dello Stato a maggioranza bamar (o birmana) buddista, ma popolato da oltre 100 minoranze etniche. La sua vita è stata segnata da traumi, lutti e almeno due agguati, nei quali hanno perso la vita decine di persone.
Transizione “tradita”. La previsione del giornalista Win Tin
Quando nel 2010 è stata liberata dai domiciliari e ha avviato le trattative con la giunta militare, la cosiddetta “transizione verso la democrazia”, molti governi occidentali si sono entusiasmati. “The Lady”, come è solito chiamarla il suo popolo, è diventata consigliere di stato, ministro degli Affari esteri e ministro dell’Ufficio del presidente. Il potere, tuttavia, è rimasto in gran parte agli ex generali. Un’incerta apertura al libero mercato non ha fermato il land grabbing o altri sfruttamenti illegali di esseri umani e risorse naturali. Per i rohingya, invece, il tempo sembra essersi fermato a un anno fa. Non si è trovata una soluzione decorosa e sicura per un popolo quasi interamente fuggito in Bangladesh e che vive in condizioni precarie, come spiega l’ultimo rapporto di Medici senza frontiere.
Leggi anche: Land grabbing in Myanmar. Qui il fenomeno è usato anche come persecuzione
Il governo birmano e la stessa Suu Kyi continuano a considerare gli esuli non degni di cittadinanza e di diritti. Per loro sono “migranti illegali bengalesi”, sebbene vivano nel sud del Myanmar da secoli o decenni. Inoltre, un barlume di libertà di stampa sembrava essersi acceso. I giornali degli ex dissidenti hanno aperto le redazioni in territorio birmano, ma dopo la sentenza contro i collaboratori di Reuters temono una simile sorte. Alcuni osservatori dicono che la transizione richiede tempo e prudenza, ma per altri le persecuzioni contro i rohingya o i cristiani Kachin macchiano di tradimento ogni sforzo democratico fin qui compiuto.
A far luce – per primo – sull’ambiguità della politica Aung san Suu Kyi, è stato proprio il suo mentore e più stretto alleato Win Tin. Le amare considerazioni di Win Tin sono ben riassunte in un articolo del settimanale britannico Economist. Quando fu eletta in parlamento nel 2012, disse che era diventata troppo docile e filogovernativa. Lui che nel 1988 aveva convinto la figlia di Aung Sang a fondare la Nld (National league for democracy) non approvava ciò che era diventata. Riteneva che il modo in cui si faceva venerare dai membri del partito fosse addirittura dannoso per la democrazia. Prima di morire, nel 2014, ha ammesso di aver pensato a un’altra guida più giovane che sostituisse “The Lady”.
In verità, Win Tin era per carattere e convinzione l’antitesi di Suu Kyi. Noto come “Saya”, il saggio, era lontanissimo dall’approccio elitario, aristocratico, persino da icona pop della sua compagna di lotte. Da figlio di un commerciante, Win Tin era naturalmente umile e non incline ad alcun compromesso con l’esercito. Un visionario che in tutti gli anni di prigionia lottò per scrivere, come racconta nel suo libro Una vita da dissidente, edito in Italia da O barra O edizioni. Ogni volta che veniva privato di carta e penna, protestava. Impiegò sette anni per raccogliere dettagli sufficienti sugli abusi a Insein e farli arrivare di nascosto a un funzionario delle Nazioni Unite. Chissà se adesso in cella, in quello stesso carcere, Wa Lone e Kyaw Soe Oo pensano a questo giornalista dalla corporatura gracile e dai grandi occhiali che una volta scrisse: “Fin quando le strisce nere su sfondo giallo saranno abbastanza visibili, una tigre resta una tigre”.
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