La città a 15 minuti è un modello urbanistico che vuole garantire a ogni abitante l’accesso a negozi, scuole, servizi essenziali. Ma, c’è un ma…
Nigel Tapper. Il climatologo premio Nobel che ha messo le città al centro della lotta al riscaldamento globale
Il climatologo Nigel Tapper, premio Nobel per la Pace con Al Gore, ha presieduto la giuria del Riviera Film Festival 2018. E ci ha parlato dell’importanza delle città nella lotta al riscaldamento globale, attraverso mitigazione e adattamento.
Un’intera sezione dedicata ai documentari a tema ambientale vinta dal film Blue, dedicato al tema dell’inquinamento degli oceani. È stata questa la novità della seconda edizione del Riviera international film festival, manifestazione cinematografica, che si è tenuta dal 2 e il 6 maggio a Sestri Levante. A presiedere la giuria di questa sezione è stato chiamato dall’Australia il climatologo Nigel Tapper che, nel 2007 insieme ad Al Gore, vinse il premio Nobel per la Pace con l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, di cui fa parte tutt’ora.
La sua presenza al festival ligure è stata anche l’occasione per un’intervista sul ruolo delle città, in quanto luoghi, più di altri, colpiti dall’aumento delle temperature. Il processo di urbanizzazione, infatti, “continua ad un passo davvero incredibile”, nelle parole del professor Tapper, che ha illustrato come “nel 2007, per la prima volta nella storia della Terra, il 50 per cento della popolazione mondiale ha iniziato a vivere in contesti urbani”.
Proprio nelle città si sono registrati negli ultimi decenni anche i principali picchi di aumento delle temperature medie. Lo sanno bene proprio in Australia, patria del professore, dove il global warming è un tema noto e di cui Nigel Tapper ha citato alcuni esempi. Su tutti quello dell’estate nera del 2009 quando “sono morte 547 persone per fattori legati al clima. Quell’anno si è arrivati a toccare picchi di 48 gradi in alcune zone, ma ci aspettiamo che nei prossimi anni si possano toccare anche i 50 gradi”.
Alberi e acqua contro l’aumento delle temperature
Il fatto che le città stiano diventando sempre più calde rispetto alle aree rurali ha diverse cause, legate alla “natura della superficie, alle caratteristiche termiche delle strutture (incluso il colore dei tetti), alla forma e alla struttura della città stessa, che è sempre più impermeabile alla pioggia”. Proprio l’acqua, insieme agli alberi risultano elementi cruciali nella riduzione delle temperature.
Ecco perché gli studi di Tapper e del suo team si concentrano soprattutto su soluzioni di raccolta dell’acqua piovana e di incremento delle superfici verdi. “Raddoppiare la copertura arborea in un contesto urbano può ridurre la temperatura fino a 7 gradi, in caso di caldo estremo”, spiega il climatologo che, su richiesta del governo australiano, ha elaborato un indice di vulnerabilità, mappando le aree più a rischio, così da poter prevedere in modo efficace il necessario dispiego di risorse da parte degli ospedali e delle forze di pronto intervento. Un lavoro minuzioso, che ha “permesso di gestire meglio l’ondata di calore avvenuta nel 2014 quando la mortalità è stata ridotta del 60 per cento rispetto all’estate nera del 2009”.
Temi complessi e fondamentali se pensiamo che “un’onda di calore genera più morti di molti altri fenomeni, come per esempio gli uragani”. Un dato inquietante, che si scontra però con la fatica e la lentezza con cui governi e istituzioni si muovono per adottare misure concrete. Anche di questo abbiamo voluto parlare con il professor Nigel Tapper, durante la nostra intervista
Oxfam ha recentemente riferito che i governi che avevano sottoscritto l’Accordo di Parigi sul clima non hanno ancora stanziato i fondi promessi per progetti legati all’adattamento e alla mitigazione. Cosa pensa di questa situazione e quali sono le soluzioni possibili?
L’aspetto politico della questione non è il mio ambito specifico di conoscenza del tema, ma posso dire che l’Accordo di Parigi è un documento molto importante. L’uscita degli Stati Uniti è stata una macchia, ma tutti gli stati che ne fanno parte dovrebbero essere in grado di portare avanti gli impegni presi. So, per esempio, che gli stati europei sono sulla buona strada per quanto riguarda il versamento dei contributi. So anche che in Australia ci sono nuovi importanti investimenti in atto, promossi non dal governo centrale, ma dalle amministrazioni locali e da singoli individui. Dunque c’è la speranza che le cose vadano nel verso giusto.
Quindi è ottimista?
Io sono sempre ottimista, ma riuscire a contenere l’aumento della temperatura al di sotto dei due gradi centigradi non è così probabile. Una risposta possibile al problema dei cambiamenti climatici è l’adattamento, in particolare nelle città, che sono i luoghi dove la situazione è più critica e dove ridurre l’innalzamento climatico è ancora più importante.
L’Ipcc è stato istituito nel 1988 e festeggia quest’anno il suo trentesimo anniversario. Lei collabora ancora con questo organo?
Io faccio parte dell’Ipcc dal 2007 e adesso sono un lead author del gruppo di lavoro 2, che si occupa di adattamento, attenuazione e vulnerabilità. La mia, infatti, è un’esperienza specifica nel campo del clima delle aree urbane.
Leggi anche: Il futuro del clima è il presente delle città. La lettera dei sindaci di Parigi, Tokyo, Sydney e Città del Capo
Cosa è cambiato in questo arco di tempo nell’approccio alla questione climatica da parte del gruppo?
Ci sono stati alcuni cambiamenti più lievi e altri più significativi. Negli ultimi dieci anni uno dei focus è stato proprio quello di promuovere il tema dell’attenuazione e di sollecitare la messa in atto di meccanismi di adattamento. Ormai è diventato chiaro che un trend di aumento delle temperature è inevitabile. Tutti dobbiamo fare i conti con questo, ma al tempo stesso impegnarci per contenerlo. Già nel 2007 l’Ipcc aveva affermato che l’adattamento era diventato una priorità. Un altro punto importante degli ultimi anni è stata l’attenzione data alle città. Lo scorso marzo, in Canada, ho partecipato a una conferenza dell’Ipcc dedicata proprio a questo tema.
Da quanto tempo studia e si occupa di riscaldamento globale?
Sono stato un climatologo per tutta la vita. Nel 2007 ho partecipato al gruppo di lavoro dell’Ipcc, che ha vinto il Premio Nobel e adesso sono impegnato per la stesura del sesto rapporto, che sarà pronto nel 2021. Il tema centrale di questo report saranno proprio le città.
A proposito del Nobel. Questo riconoscimento ha aiutato a sostenere la lotta al gobal warming?
Assolutamente. Il riconoscimento del Nobel ad Al Gore e all’Ipcc è stato importantissimo. Ha aiutato a promuovere la validità del tema agli occhi della gente. Trovo che sia un premio molto sentito in Europa, dove ha avuto ripercussioni positive.
Sappiamo che Donald Trump ha portato gli Stati Uniti fuori dall’accordo di Parigi perché convinto che le misure da adottare li danneggerebbero. Recentemente, però, ha dichiarato di essere disposto a rientrare, a patto di poter rinegoziare gli accordi. Cosa pensa di questo?
Trump vuole condizioni migliori per gli Stati Uniti in tutto: nel commercio, negli accordi sul clima. Negli ultimi 200 anni non ci siamo dovuti preoccupare di queste cose, ma gli Stati Uniti hanno contribuito più di qualunque altro Paese a determinare i problemi che viviamo oggi. Questo è stato riconosciuto dal suo predecessore Barack Obama, ma non mi pare che lo sia altrettanto da Trump. Ritengo, però, che se lui percepirà la sensazione di rimanere solo, ovvero di restare indietro rispetto agli altri stati nei processi in atto sulle energie rinnovabili, allora potrebbe davvero tornare sui suoi passi. C’è comunque da dire che, nonostante quello che Trump fa e dice, migliaia di americani hanno preso la direzione giusta. La California, che rappresenta un terzo dell’economia del Paese, sta mettendo in atto misure concrete per contrastare il riscaldamento globale e lo stesso stanno facendo anche molti altri stati e realtà. Per esempio Michael Bloomberg (già sindaco di New York, ndr) sta pagando un contributo all’Ipcc, mentre il governo americano no.
Lei è stato invitato come presidente di giuria per i documentari: quanto è importante che anche il cinema dia risalto al tema ambientale?
Credo che sia fondamentale che le persone siano informate su argomenti come questo. I media veicolano sì dei messaggi, che sono importanti per informare le persone, ma, purtroppo, mi rendo conto che non arrivano interamente al pubblico che non legge giornali o documenti scientifici. E qui vanno a inserirsi i documentari, imprescindibili per informare sul cambiamento climatico, sulla sostenibilità e sul mondo che ci circonda.
Cosa pensa degli argomenti scelti dai registi dei documentari di questa edizione?
Sono tutti legati al problema della sostenibilità e alcuni hanno connessioni con il problema del clima. I temi spaziano dall’estinzione delle specie causata dall’uomo, all’inquinamento degli oceani, fino alle conseguenze su salute e ambiente dell’industria tecnologica e digitale. Li ho trovati molto belli e con tipologie di narrazione diverse. Alcuni più drammatici e con un alto livello di conflitto, altri con trame molto forti e altri ancora con strutture più “libere”.
Quale nuovo argomento le piacerebbe vedere in un documentario ambientale?
Mi piacerebbe vedere un documentario proprio sull’adattamento climatico nelle città. Finora non è mai stato fatto, che io sappia. Sì, è un’idea, dovremmo farlo!
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