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A dieci anni dall’inclusione dei diritti della madre Terra – la Pachamama – nella Costituzione ecuadoriana, vediamo a che punto siamo.
Era il 20 ottobre del 2008 quando entrò in vigore la nuova Costituzione dell’Ecuador, prima nel mondo a riconoscere alla Pachamama – la madre Terra in lingua locale – diritti inalienabili. Il preambolo afferma: “Celebriamo la natura, la Pachamama, di cui siamo parte e che è vitale per la nostra esistenza”. I suoi diritti sono sanciti dal settimo capitolo; il primo articolo recita: “La natura, o Pachamama, dove la vita si riproduce e ha luogo, ha il diritto ad essere integralmente rispettata per la propria esistenza e per il mantenimento e la rigenerazione dei suoi cicli vitali, della sua struttura, funzioni e processi evolutivi.” Diritto non solo ad essere rispettata, ma anche integralmente restaurata laddove sia violata.
Alla luce di questo, l’Ecuador si propone di costruire una nuova forma di convivenza cittadina, in nome della diversità e dell’armonia con la natura, per raggiungere il buon vivere (buen vivir in spagnolo, sumak kawsay in lingua indigena). Se ne parla nel secondo capitolo della Costituzione. Il concetto di sviluppo, con cui siamo più familiari e che racchiude l’idea di vivere sempre meglio, è tipico della cultura occidentale, ma non trova riscontro nei linguaggi indigeni; buen vivir è invece l’approccio tipicamente andino che contempla una vita piena e dignitosa, un’esistenza armoniosa tra le diverse dimensioni dell’esistere, tra l’ambiente e la comunità.
Secondo Alberto Acosta, ex presidente dell’assemblea costituente tra i promotori della riforma del 2008, come la giustizia sociale è stata il cuore delle battaglie del Ventesimo secolo, la giustizia ambientale sarà alla base delle lotte nel Ventunesimo.
Se la grande innovazione della Costituzione del 2008 fu quella di includere i diritti della natura, così come il diritto alla partecipazione e quelli dei popoli indigeni, la stessa comunque rinnova l’importanza dei diritti sociali. Si parla infatti anche di diritto all’acqua (art. 12), al cibo e alla sovranità alimentare (art. 13), alla salute (art. 32) e dell’universalizzazione del diritto alla sicurezza sociale (art. 34).
La Costituzione del 2008 costituisce senz’altro un passo avanti importante sia a livello concreto che di principio, ma le difficoltà rimangono molte. Per cominciare non esiste una definizione chiara di che cosa sia la natura, ma qualsiasi cosa essa sia, non può autonomamente far valere i propri diritti. Sono i cittadini quindi ad averne facoltà e a dover chiamare in causa le autorità affinché li facciano rispettare. Il problema fondamentale nel riconoscere pari diritti legali agli uomini e alla natura sta nel fatto che tali diritti sono spesso in conflitto tra loro, e nonostante vengano offerti incentivi per chi si fa paladino della giustizia ambientale in prima persona, la materia è complessa e gli interessi in gioco sono molti.
Inoltre, la Costituzione stabilisce regole ad alto livello per indirizzare leggi e giurisprudenza, ma in concreto possono esserci contraddizioni a livello locale, regionale o nazionale: la realtà può risultare lontana da quanto anelato e la visione del mondo naturale come qualcosa di “altro” rispetto all’uomo è ancora difficile da scardinare.
In un paese che dipende pesantemente dall’industria estrattiva, proteggere la natura dalle interferenze può sembrare idealistico o irrealizzabile. Ricercatori dell’università Anglia ruskin hanno osservato che la Costituzione del 2008 è stata emanata in un periodo di relativo benessere, ma nel momento in cui l’economia dovesse volgere in peggio le priorità potrebbero cambiare.
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Le statistiche della Banca Mondiale mostrano che l’esportazione di petrolio apporta alle casse dello stato 5 miliardi di dollari l’anno, in diminuzione rispetto al passato, e il sottosuolo del paese è ricco anche di altre materie prime e minerali che mettono in pericolo l’integrità della Pachamama. Ne sono prova le proteste delle popolazioni indigene riguardo soprattutto alle concessioni petrolifere e minerarie sui territori tribali, ma anche le loro lotte in favore della biodiversità e di un’agricoltura sostenibile.
“Big mining & oil industries are moving into our community. It’s a universal problem, not just our community…” – Yaku Viteri of @Sarayaku_Libre #sketchingclimatestories https://t.co/dNVKxeXSqL pic.twitter.com/KEFTvhTxLi
— AMAZON WATCH (@AmazonWatch) 18 settembre 2018
Nell’articolo 21 sui diritti di comunità, popoli e nazionalità, si trova un tema importante: “I territori dei popoli in isolamento volontario sono possesso ancestrale irriducibile e intangibile e in essi sarà vietato ogni tipo di attività estrattiva. Lo stato adotterà misure per garantire la loro vita, far rispettare la loro autodeterminazione e la volontà di permanere in stato di isolamento e proteggere il rispetto dei loro diritti”.
Se questo approccio è ovviamente positivo per quelle popolazioni riconosciute come in isolamento volontario, risulta uno specchietto per le allodole e uno schermo dietro cui il governo può nascondersi, perché di fatto rimangono immensi gli spazi che invece vengono sottoposti a sfruttamento e moltissime le popolazioni indigene nella foresta a cui non è offerta una simile protezione. A ben guardare è proprio la zona dell’Amazzonia la più ricca di concessioni petrolifere.
Dal canto loro i popoli indigeni hanno già una soluzione, chiedono che venga loro riconosciuto il ruolo di difensori della foresta, riconosciuta come essere vivente: il loro sapere ancestrale ha da centinaia di anni preservato l’ambiente e fatto sì che si creasse un rapporto simbiotico tra la comunità e la natura. Ora che questo rapporto si è incrinato torna attuale il concetto del buen vivir, basato su un approccio ecocentrico, in cui la natura e l’uomo sono un tutt’uno, piuttosto che antropocentrico che considera la natura come un insieme di risorse da sfruttare.
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