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Una specializzanda in pediatria è stata in missione al Dr. Ambrosoli Memorial Hospital di Kalongo, in Uganda. Un luogo dove bisogna imparare quando è giusto mollare e quando no e che ogni gesto, anche il più piccolo, vale.
Francesca Poma, specializzanda in pediatria, è stata in missione al Dr. Ambrosoli Memorial Hospital di Kalongo, in Uganda, per tre mesi. Le sue parole disegnano i contorni di un luogo dove la vita scorre semplice e intensa in egual misura, e dove ogni gesto, anche il più piccolo, ha valore.
Da Torino a Kalongo. Al tuo arrivo cosa ti ha colpito in questa terra così lontana e diversa da casa?
Se penso a quando facevo gli ultimi preparativi in vista della partenza, versavo le prime lacrime per i saluti e vivevo ogni cosa con il batticuore a mille, non mi par vero di essermi trovata lì, dopo sette giorni, seduta sull’uscio della guest house a Kalongo. Nel naso profumi diversi, alle mie spalle il rumore di Alice che taglia le verdure in cucina, davanti a me le case degli altri espatriati. Tutto intorno il cinguettio di una miriade di uccelli nascosti tra le fronde degli alberi. Da lì vedevo le capanne dove vivono i dipendenti con le loro famiglie, proprio a lato del compound dell’ospedale. Dall’altro lato scorgevo una strada di passaggio dove fluiscono moto cariche di persone, persone cariche di pesi, mamme cariche di bambini, bambini carichi di bambini, e tante tantissime capre. La mia Africa.
All’inizio è stata tosta, sono stata lanciata senza paracadute di salvataggio nel Dr. Ambrosoli Memorial Hospital: in mezzo ai suoi mille colori, odori e rumori. L’azzurro sporco delle pareti e quello limpido del cielo, il nero della pelle e il bianco dei sorrisi, l’odore dell’olio con cui ungono i neonati e del sudore di chi ha aspettato, in coda per ore sotto il sole, il proprio turno. E poi parole, canti, risate, mai un pianto, se non quello dei bambini che, anche se il più delle volte sono coraggiosi come leoni, sanno farsi sentire quando necessario. Gli adulti invece qui non piangono, non si danno baci, non si scambiano gesti affettuosi: sono cose che in pubblico non si fanno, per pudore credo. È spiazzante.
Quello di Kalongo è un ospedale di frontiera che serve un’area rurale molto povera e priva di vie di comunicazione, l’ultima strada asfaltata si ferma a 150 km dall’ospedale. Cosa significa per un medico vivere e operare in un contesto così remoto?
Non è semplice assicurare all’ospedale una regolare fornitura di medicinali e di attrezzature necessarie a offrire adeguata assistenza a un numero sempre maggiore di pazienti: solo nel 2017 sono state curate e assistite più di 50mila persone. Fortunatamente l’ospedale di Kalongo può contare su partner come la Fondazione Ambrosoli che da vent’anni è fermamente impegnata a sostenerlo sia per le necessità correnti, che sono sempre tantissime, sia per la formazione del personale sanitario. Sì, perché solo attraverso la formazione si può garantire sostenibilità e autonomia all’ospedale.
Com’è la vita di tutti i giorni, dentro e fuori dall’ospedale?
Vivere così attaccati all’ospedale non aiuta a staccare la spina, mai. Un giorno sono andata a messa: due ore di canti e parole in acholi. Quando sono arrivata la chiesa era già stracolma di gente. All’uscita da messa incamminandomi verso casa ho deciso di fare un breve passaggio in reparto. C’era un bimbo che stava proprio male e doveva essere controllato. Ho guardato la cartella e visto che un diuretico che avevamo prescritto non era ancora stato somministrato. Ho parlato con i genitori, poche parole in inglese, chissà se mi hanno davvero capito. Poi ho chiesto all’infermiera di dargli almeno un po’ di paracetamolo e di andare a cercare negli altri reparti il farmaco per capire se c’è in ospedale o se bisogna considerare un’alternativa. Mi sono confrontata al telefono con il medico della pediatria, il dottor Maurice, per capire con lui cosa fare.
Confrontarsi con chi non parla la tua lingua non è mai semplice, ancora di più se sono persone bisognose e sofferenti. Come sei riuscita ad entrare in relazione con i tuoi pazienti e i loro familiari?
Non so mai come condividere con loro gioie e tristezze, e non sapendo parlare acholi, la gestualità è una delle poche scelte che mi rimane, insieme allo sguardo e perciò lo uso, il mio sguardo, per cercare di trasmettere loro i miei pensieri. A volte ci sono le studentesse della scuola di ostetricia e le infermiere che mi aiutano traducendo per me, ma non è la stessa cosa. Va bene se chiedo: “Ha febbre? Ha male? Mangia?” ma quando si tratta di trasmettere empatia, come fai a tradurla? Perciò guardo le mamme e i bambini negli occhi e spero di cuore che qualcosa arrivi loro. Di papà ce ne sono pochi. In pediatria e in maternità gli uomini arrivano solo quando c’è da prendere una decisione importante: le sorti di donne e bambini sono sempre nelle loro mani.
Sei specializzanda in pediatria; in questi mesi hai potuto accrescere la tua professionalità. C’è qualcosa che credi di aver appreso in Uganda che diversamente, in Italia, non avresti avuto modo di fare?
Andare in neonatologia da sola, da quei piccoli, teneri “microbi” è un po’ come ricevere uno schiaffo emotivo. Nella sala medica della pediatria un cartello dice “A child can die only when he must die”, ovvero “Un bambino può morire solo quando deve morire”. La sfida è distinguere quelli che davvero devono morire da quelli che invece possono farcela se interveniamo subito e bene. Ho deciso che una delle lezioni che voglio portarmi a casa, e che mi sta costando mal di testa quotidiani, è proprio questa: non voglio imparare a curare la malaria, la tubercolosi o la drepanocitosi; voglio imparare a capire quando è bene mollare e quando no. Perché qui, soprattutto qui, se molli quando non devi e non molli quando devi, fai in entrambi i casi un danno enorme”.
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