Un manifestante dell’organizzazione Demosisto racconta la situazione di Hong Kong. E spiega perché il suo partito e i cittadini continueranno a manifestare.
L’inquietudine che scuote i giovani di Hong Kong
A Hong Kong da due mesi i giovani manifestano contro il governo locale e il crescente controllo di Pechino. Le ragioni delle proteste.
Adolescenti, appena maggiorenni, per lo più ventenni. Nel 1997, quando la loro città, Hong Kong, passò dal dominio britannico alla Cina, molti di loro non erano nati. Eppure, oggi si definiscono “hongkongers” perché le loro radici si diramano nella storia complessa e singolare della megalopoli asiatica. I ragazzi che da giugno protestano contro il governo locale di Carrie Lam, di fatto controllato da quello centrale cinese, sono cresciuti nella mescolanza di culture, con ideali cosmopoliti e libertà che nella Repubblica popolare non sono mai esistiti, almeno in quelle forme.
Tralasciando la natura e le ragioni profonde delle manifestazioni, Pechino li ha definiti “rivoltosi e facinorosi”. Anche diversi media italiani hanno diffuso la versione governativa, infangando lo spirito pacifico con cui oltre un milione di hongkongers ha marciato per le strade nelle ultime otto settimane. Per disegnare un quadro più onesto dell’onda di caos e disperazione che sta affliggendo Hong Kong, bisogna guardare ai report di corrispondenti in loco e media stranieri.
La maggioranza dei manifestanti è pacifica
È vero che un gruppo minoritario ha compiuto degli atti vandalici, ma è un fatto che l’amministrazione “filocinese” della città non stia accogliendo le richieste pacifiche della maggioranza dei manifestanti. Sembra sempre più chiaro che governo centrale e locale li spingano all’esasperazione. Inoltre, andrebbe ricordato che l’episodio più violento di questi due lunghi mesi ha visto protagonisti i picchiatori della triade, la principale organizzazione criminale cinese che oggi conta 100mila membri solo a Hong Kong. Lo scorso 22 luglio una gang ha assalito e malmenato i dimostranti che rientravano da una marcia filodemocratica e attendevano i treni nella stazione di Yuen Long. Alcune “magliette bianche” si sono contrapposte violentemente alle “magliette nere” indossate dai dimostranti non violenti. Questa azione squadrista, assieme ai gas lacrimogeni e ai proiettili di gomma usati dalla polizia, ha contribuito ad accrescere la rabbia e la disperazione.
L’autonomia di Hong Kong è in pericolo
La proposta della legge sull’estradizione è solo la goccia che ha aperto gli argini delle proteste. L’idea che un cittadino di Hong Kong potesse essere processato per alcuni crimini in Cina, è stata percepita come l’ennesimo tradimento di ciò che era stato promesso 22 anni fa, il primo luglio del 1997 appunto. Allora, in una notte di festa illuminata da splendidi fuochi d’artificio e trasmessa dalle tv di tutto il mondo, si era celebrato l’inizio del modello “Un paese, due sistemi” ideato negli anni Ottanta del secolo scorso dal leader cinese Deng Xiao Ping. Finalmente, il regno britannico aveva permesso la concessione della sua ex colonia d’Oriente con la garanzia che il sistema giuridico sarebbe rimasto indipendente, l’economia capitalista, la libertà d’espressione intatta e ci si fosse avviati verso un suffragio universale.
Pechino ha ribadito che la formula “Un paese, due sistemi” è un punto fermo, ma in realtà l’erosione di quel patto – stretto indirettamente anche con gli hongkongers – procede da due decenni. I più giovani vedono ciò che i padri non hanno il coraggio di fronteggiare: l’autonomia di Hong Kong è in pericolo. Molti di loro raccontano di essere stati sgridati e contrastati dai genitori per aver aderito alle proteste.
Cos’è cambiato dalle Umbrella protests
I cittadini di Hong Kong non eleggono quasi nessuno dei loro rappresentanti politici. Gran parte dei seggi del parlamento sono occupati da legislatori filocinesi. Sul governo locale influiscono, votando, solo per un misero 6 per cento. Pechino ha quasi il pieno controllo della loro amministrazione. Questa “anomalia”, in cui non è stato applicato quanto sancito nella mini-Costituzione di Hong Kong, ha già portato a grandi manifestazioni nel 2014, le Umbrella protests. Tuttavia, le domande dei ragazzi di allora, dichiaratamente “filodemocratici”, sono state represse e ignorate. I loro “fratelli minori” li considerano dei modelli, ma sanno che devono essere più determinati e organizzati. Diversi studenti, neolaureati, giovani professionisti spiegano perché cercano di non farsi riconoscere con maschere e bandane nere quando vanno in piazza. Alcuni di loro, che in una prima fase hanno manifestato a volto scoperto, sono stati identificati e arrestati. Anche internet potrebbe essere una trappola. Devono utilizzare sistemi di messaggistica criptati. La polizia ha già tentato di compiere dei rastrellamenti nei campus universitari e avrebbe fermato alcuni ragazzi feriti che vengono curati negli ospedali.
Giovani colti, privi dell’indipendenza
L’altro motivo che spinge questa nuova generazione alla ribellione è l’assenza di prospettive economiche rassicuranti. Da un reportage del South China morning post emerge come il modello capitalistico locale non stia più funzionando. I ragazzi delle proteste sono ritratti nelle loro camerette, come fossero ancora bambini a cui è impedito crescere e diventare autonomi. Questi spazi angusti, spesso, li condividono con genitori e fratelli, in una dimensione che percepiscono insopportabile. In una delle città più care al mondo, si riscontra la disperazione di giovani adulti colti, moderni, ma non indipendenti. Un’indagine medica recente ha registrato un aumento delle depressioni e ad oggi cinque suicidi durante le manifestazioni “anti-estradizione”. Si teme che la cittadinanza di Hong Kong stia precipitando in una spirale grigia, oscura, di malessere diffuso come nel vicino Giappone, pioniere del capitalismo asiatico. Ma con la differenza che nella metropoli autonoma cinese si sta perdendo anche il diritto di urlarlo, questo malessere.
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