La Cop16 sulla biodiversità si conclude con pochi passi avanti. Cosa resta, al di là della speranza?
Si è conclusa il 2 novembre la Cop16 sulla biodiversità, in Colombia. Nonostante le speranze, non arrivano grandi risultati. Ancora una volta.
I conflitti armati scoppiati nel continente africano negli ultimi decenni sono stati la principale causa del declino delle popolazioni di animali selvatici e minacciano tuttora gli sforzi di conservazione.
Negli ultimi decenni l’Africa è stata devastata da numerose guerre. I conflitti armati, scoppiati in paesi come Somalia, Ruanda, Algeria, Sierra Leone, Mozambico, Nigeria e Repubblica Democratica del Congo, sono responsabili di un enorme numero di vittime civili, difficile da quantificare. Gli esseri umani non sono tuttavia le uniche vittime delle guerre, anche la fauna selvatica ha pagato un prezzo spropositato all’indole guerrafondaia della nostra specie. Si ritiene che le guerre siano state la principale causa del declino di molti grandi mammiferi africani.
Molti conflitti sono scoppiati in prossimità di aree protette, si stima che, nell’ultimo mezzo secolo, oltre il 70 per cento dei parchi nazionali africani sia stato colpito dalla guerra. In queste occasioni gli animali possono essere vittime degli scontri a fuoco o abbattuti deliberatamente per nutrire gli eserciti o finanziare le operazioni belliche tramite, ad esempio, la vendita di avorio. La guerra ha anche effetti negativi indiretti sulla fauna, indebolendo i dipartimenti dei parchi e favorendo così il bracconaggio.
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La guerra civile scoppiata in Mozambico nel 1977, il più lungo conflitto del continente africano, è esemplificativa dell’impatto dei conflitti armati sulla fauna. Gran parte degli scontri si sono svolti nelle sconfinate lande del parco nazionale di Gorongosa. Al termine del conflitto, nel 1992, molte popolazioni di grandi mammiferi erano state decimate, con cali di oltre il 90 per cento. Sopravvivevano appena 200 elefanti, dei circa duemila che vi abitavano prima della guerra, e due piccole mandrie di zebre e gnu, composte da soli cinquanta esemplari.
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Anche la Prima guerra del Congo, scoppiata nel 1996 nell’attuale Repubblica Democratica del Congo, provocò un rapido tracollo della megafauna. All’arrivo delle milizie armate nel parco nazionale di Garamba sopravvissero solo 31 rinoceronti bianchi settentrionali (Ceratotherium simum cottoni) e nel giro di pochi mesi scomparvero la metà degli elefanti del parco, i due terzi dei suoi bufali e i tre quarti degli ippopotami.
Uno studio condotto da un gruppo di ricercatori delle università di Yale e Princeton, pubblicato nel 2018, ha cercato, per la prima volta, di quantificare l’impatto delle guerre sulle popolazioni di grandi erbivori nelle aree protette dell’Africa dal 1946 al 2010. Gli scienziati hanno esaminato i dati relativi a 253 popolazioni di 36 specie di erbivori, tra cui elefanti, giraffe, zebre, ippopotami e gnu, provenienti da 126 aree protette in 19 paesi in tutto il continente. Dalla ricerca sono emersi risultati ambivalenti, molti casi di studio hanno dimostrato che la guerra può influenzare la sopravvivenza delle popolazioni locali, a volte minacciando intere specie. In alcuni casi, tuttavia, il conflitto sembra effettivamente favorire gli animali.
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La fauna risentirebbe in particolar modo della frequenza dei conflitti, maggiore è la frequenza più rapido è il declino delle popolazioni. La ricerca ha però anche evidenziato che, tra tutte le popolazioni prese in esame, poche hanno subito un collasso totale, suggerendo che in molte aree la fauna selvatica potrebbe tornare a crescere una volta abbassate le armi.
Gli scienziati hanno inoltre scoperto che basta un conflitto relativamente piccolo per provocare una diminuzione delle popolazioni di fauna selvatica. “Questo studio conferma ciò che molte ricerche hanno suggerito: la guerra è uno dei principali fattori di declino delle popolazioni animali in tutta l’Africa”, ha affermato Kaitlyn Gaynor, ricercatrice dell’università di Berkeley, che ha studiato l’influenza dei conflitti armati sulla fauna.
In alcuni casi, secondo i ricercatori, la guerra può avvantaggiare gli animali. I conflitti tendono infatti a provocare la fuga delle persone, liberando così un’area da cui può trarre vantaggio la fauna. È quanto avvenuto, ad esempio, nella zona demilitarizzata coreana, area istituita nel 1953 per fungere da zona cuscinetto tra la Corea del Nord e la Corea del Sud. Questo lembo di terra è diventato un prezioso rifugio per specie rare e minacciate, come la gru della Manciuria (Grus japonensis) e l’orso dal collare (Ursus thibetanus).
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Il parco nazionale di Gorongosa in Mozambico ha vissuto, come detto, un grave declino della sua megafauna a causa della guerra civile che per quindici anni ha insanguinato il Paese, con conseguenze negative a catena su tutto l’ecosistema. Proprio quest’area rappresenta però una speranza e un esempio per tutti i parchi funestati da conflitti armati. Dopo l’accordo di pace siglato nel 1992, il governo del Mozambico, in collaborazione con la Fondazione Carr, ha avviato un grande progetto trentennale per restaurare il parco di Gorongosa.
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Per l’iniziativa, volta a ripristinare la biodiversità e a fornire una fonte di reddito turistico per la popolazione locale, sono stati investiti oltre 40 milioni di dollari e sono stati creati centinaia di posti di lavoro. Il successo del progetto è testimoniato dai numeri, nell’area protetta vivono oggi oltre 500 elefanti, 60 leoni e decine di migliaia di antilopi, e il parco può debitamente autodefinirsi come “la più grande storia di restauro della fauna selvatica in Africa”.
Anche in virtù dell’esempio del Mozambico, i ricercatori ritengono che le iniziative di conservazione possano giocare un ruolo importante nella costruzione della pace postbellica. Ad esempio tramite la creazione di partenariati pubblico-privati, in cui i governi affidano la gestione di un’area protetta in zona di guerra ad una ong. In questi casi i gestori dei parchi provengono solitamente da fuori e vengono presentati come figure neutrali.
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I ricercatori ritengono che questo approccio possa avere effetti positivi, sia in ambito politico che economico, che si estendono oltre i confini dell’area protetta. È quanto avvenuto nel parco nazionale di Virunga, nella Repubblica Democratica del Congo. Il parco, noto per i suoi rari gorilla di montagna (Gorilla beringei beringei), è gestito dalla ong britannica Fondazione Virunga e rappresenta un caso di successo in un’area caratterizzata da forte instabilità, certificato dall’incremento delle popolazioni di gorilla.
È bene però ricordare che la protezione della fauna selvatica non è un’attività politicamente neutra, gioca un ruolo attivo nelle aree in guerra e, in alcuni casi, può perfino aggravare i conflitti armati causando così più danni agli animali.
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