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Prosciutto nudo, qual è il vero costo della carne di maiale
Il rapporto illustra i costi nascosti dell’allevamento industriale di suini in Italia, evidenziandone il terribile impatto sul pianeta e sulla nostra salute.
Il dibattito sulla carne viene spesso affrontato dal punto di vista ideologico, contrapponendo due fazioni, esacerbandone il conflitto, acuendo le alterità e spettacolarizzando lo “scontro”. Di rado, invece, ci si concentra su dati oggettivi. Questo è quello che si propone di fare il dossier Prosciutto nudo, i costi nascosti dell’allevamento industriale di maiali, curato da Fabio Ciconte e Stefano Liberti e realizzato dall’associazione Terra!. L’obiettivo del rapporto è analizzare i costi ambientali di una filiera importante del made in Italy e le esternalità negative scaricate sulla comunità intera, dall’inquinamento prodotto, al grave rischio sanitario generato dal massiccio uso di antibiotici negli allevamenti intensivi, fino all’accelerazione dei cambiamenti climatici.
7 maiali su 10 si trovano negli allevamenti intensivi
In un modo o nell’altro, forse per un meccanismo di autoassoluzione o forse a causa di efficaci strategie di marketing, siamo ancora convinti che la maggior parte degli animali che mangiamo cresca in verdi fattorie accudita da bonari fattori. La realtà, naturalmente, è ben diversa. In tutto il mondo ogni anno vengono allevati 1,5 miliardi di suini, oltre il 70 per cento di questi è rinchiuso negli allevamenti intensivi, dove gli animali trascorrono la totalità della loro vita senza poter mai uscire all’aria aperta. Nel nostro Paese sono circa dodici milioni i maiali macellati ogni anno, l’88 per cento dei maiali è rinchiuso in allevamenti di grande dimensione.
L’amara illusione del basso prezzo
“Ci sono due grandi tragedie nella vita. La prima è desiderare ciò che non si può avere, la seconda è ottenerla”, recita un noto aforisma attribuito a Oscar Wilde. In questo caso i consumatori hanno desiderato carne a costi sempre più bassi e, infine, l’hanno ottenuta. Ma a che prezzo? “L’allevamento intensivo ha permesso di ridurre i costi di produzione e far diminuire il prezzo a cui la carne viene venduta al consumatore finale, facendone parallelamente aumentare il consumo”, si legge nel rapporto che evidenzia i costi esternalizzati della produzione di carne, costi che non ci vengono addebitati alla cassa del supermercato ma che paghiamo ogni giorno e che pagheranno i nostri figli.
Perché gli allevamenti intensivi hanno rotto l’equilibrio
L’allevamento tradizionale all’aria aperta è un perfetto esempio di economia circolare, “gli animali pascolano sui campi e le loro deiezioni servono a rigenerarli concimandoli”, spiega il dossier. L’allevamento intensivo, che d’altronde è lo specchio di una società iper-consumistica sempre più avulsa dalla natura, ha invece spezzato questo equilibrio. “È un sistema chiuso, in cui l’animale è isolato dall’ambiente circostante, non ne fruisce né lo alimenta. È una fabbrica che, in quanto tale, deve essere alimentata di materie prime e produce scarti. Le loro deiezioni non sono più un bene da utilizzare per rigenerare il terreno, ma uno scarto da smaltire”.
La bulimia della zootecnia
Per alimentare i 70 miliardi di animali da allevamento presenti sul pianeta si utilizzano ogni anno un miliardo di tonnellate di mangimi, soprattutto mais e soia. Per coltivarli si impiega un’enorme quantità di suolo: un terzo delle terre arabili è oggi destinato in modo indiretto alle esigenze della zootecnia e non al consumo umano. “Se il consumo di carne segue il trend attuale a livello globale – riporta il dossier – nel 2050 sarà necessario impiegare due terzi dei terreni agricoli per le produzione dei mangimi animali. In Italia per l’insieme degli animali d’allevamento si utilizzano 14 milioni di tonnellate di mangimi all’anno”. Se il fabbisogno di mais è in gran parte coperto dalla produzione nazionale, la soia viene quasi tutta da fuori, prevalentemente dal Sud America e la quasi totalità è geneticamente modificata. La produzione e il trasporto dei mangiami ha inoltre un elevato impatto: secondo il rapporto il commercio di soia per mangime dal Brasile all’Europa produce circa 32mila tonnellate di emissioni di CO2 all’anno ed è responsabile della distruzione di migliaia di ettari di foreste tropicali.
Cibo per pochi
Anche dal punto di vista del fabbisogno alimentare globale la produzione industriale di carne è assolutamente sconveniente. “È stato stimato che un ettaro coltivato a patate e un ettaro coltivato a riso sono in grado di provvedere al nutrimento annuo rispettivamente di 22 e 19 persone, mentre un ettaro destinato alla produzione di carne è sufficiente per il nutrimento annuo di una sola persona”. Discorso analogo si può fare per il consumo di acqua, “si stima che per produrre un chilo di carne di maiale ci vogliano 6mila litri d’acqua. Per produrre un chilo di pomodori servono invece 214 litri d’acqua, per un chilo di riso 2.500 litri”.
Servono etichette trasparenti
Il potere che i consumatori esercitano in sede d’acquisto è grande e può influenzare il mercato e contrastare l’attuale catastrofica situazione. Occorrono però etichette più trasparenti. Le norme comunitarie offrono informazioni importanti sull’etichettatura dei prodotti alimentari ma, come si legge nel rapporto, “non sufficienti perché non raccontano le condizioni in cui gli animali sono stati allevati, se con metodo estensivo o, come nella maggioranza dei casi, intensivo; non dicono quali solo sono i costi ambientali e quale il bilancio energetico di una filiera energivora come quella suinicola. Costi indiretti – ambientali, sanitari ed etici – che ricadono sulla comunità e sull’ecosistema”.
Una bomba ecologica
Un aspetto che viene spesso sottovalutato quando si parla di allevamenti intensivi è quello delle deiezioni. Se nell’allevamento tradizionale il letame è utilizzato come fertilizzante, in quelli intensivi i resti reflui degli animali non sono un bene da sfruttare, ma un rifiuto da smaltire, un rifiuto altamente inquinante, oltretutto. “L’alta concentrazione di animali in così poco spazio rende questi resti altamente inquinanti perché ricchi di azoto, fosforo e potassio. A tali sostanze vanno aggiunti i farmaci somministrati agli animali, che finiscono con i resti nelle falde acquifere e nell’ambiente”.
E’ online #ProsciuttoNudo, il nostro nuovo rapporto che spiega come l’allevamento industriale di suini in #Italia sia diventato una vera e propria bomba ecologica. Per saperne di più >> https://t.co/le9KTRCQRW pic.twitter.com/fL1U7fxGOX
— Terra! onlus (@TerraOnlus) 19 aprile 2018
Il rapporto stima che ogni maiale produca annualmente 1,35 tonnellate di feci, complessivamente gli allevamenti intensivi producono dunque 11.475.000 tonnellate di feci all’anno. “Si tratta di una vera e propria bomba ecologica, con agenti inquinanti che pregiudicano lo stato delle acque e delle terre”. La maggior parte delle deiezioni dei suini viene attualmente “smaltita” spargendola sui terreni agricoli. “Quando gli escrementi animali filtrano nei corsi d’acqua, l’azoto e il fosforo in eccesso in essi contenuti rovinano la qualità dell’acqua e danneggiano gli ecosistemi acquatici e le zone umide”.
Rischio pandemia
Gli allevamenti intensivi sono anche una seria minaccia per la salute dell’umanità a causa del massiccio ricorso agli antibiotici che sta generando batteri sempre più resistenti contro i quali i farmaci sono inefficaci. In Italia il 68 per cento degli antibiotici venduti è per uso animale e il nostro Paese è il secondo stato europeo (dopo la Spagna) che ne fa il maggior ricorso negli allevamenti. “Si tratta di una quantità che supera di gran lunga la media europea e che ci avvicina a paesi dalle legislazioni meno stringenti, come gli Stati Uniti e la Cina”. Gli animali negli allevamenti vivono in condizioni agghiaccianti e per evitare che muoiano anzitempo viene fanno largo uso di terapie antibiotiche, gli antibiotici vengono però anche usati per stimolare la crescita degli animali e aumentarne il peso. “Il sovra-utilizzo di antibiotici espone eccessivamente i batteri agli antibiotici necessari per preservare la salute umana e fa aumentare la possibilità che si sviluppino ceppi di batteri antibiotico resistenti”. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha definito l’antibiotico-resistenza come una “grave e potenziale minaccia alla salute pubblica”. Secondo la Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit), in Italia si stimano ogni anno tra i 5 e i 7mila decessi a causa dell’antibiotico-resistenza. Nei paesi dell’Unione europea le vittime sono invece circa 25mila, con un costo associato di 1,5 miliardi di euro.
Il vero costo di un chilo di prosciutto
Il costo della carne oggi è quindi artificialmente basso ed è il frutto di un sistema drogato fatto di abuso di risorse, totale disinteresse verso il benessere animale e sovvenzioni. Come ci ricorda il rapporto, dobbiamo però considerare i “costi nascosti” non riportati sullo scontrino. Limitandoci all’Italia e al settore della produzione di carne di maiale, sappiamo che per produrre un chilo di carne ci vogliono 6mila litri di acqua, 4 chilogrammi di mangimi, 1,4 mg di antibiotici, vengono generati 12 chili di CO2 e bisogna smaltire 11 chili di feci. Le nostre scelte alimentari riguardano tutti, non ci si può trincerare dietro la “libertà di scelta”, ridurre drasticamente il consumo di carne, sostiene il dossier, “diventa quindi un imperativo categorico a cui non ci si può più sottrarre”, qualsiasi ideologia si decida di abbracciare.
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