La Cop16 sulla biodiversità si conclude con pochi passi avanti. Cosa resta, al di là della speranza?
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Il nuovo rapporto del Wwf rivela che, dal 1970 al 2014, a causa dell’impatto umano si sono più che dimezzate le popolazioni di mammiferi, uccelli, pesci, rettili e anfibi.
Fin dalla sua comparsa sul pianeta, la presenza dell’Homo sapiens è coincisa con la scomparsa di molte specie animali. Con la crescita esponenziale della popolazione umana e con il progresso tecnologico, che ha consentito di esercitare in maniera sempre più efficace e scientifica il dominio sulle altre specie, questa tendenza è aumentata a dismisura e ci ha condotti alla situazione attuale, che vede un pianeta sempre più vuoto a causa del collasso delle popolazioni di numerose specie animali. La situazione, se possibile, è ancora più grave del previsto, almeno stando alla dodicesima edizione del rapporto Living Planet del Wwf.
L’obiettivo dello studio, realizzato grazie al supporto di oltre cinquanta scienziati e alla collaborazione con la Zoological Society of London, era valutare lo stato di salute della fauna selvatica. Il responso è catastrofico: saremmo responsabili dell’estinzione del 60 per cento delle popolazioni di mammiferi, uccelli, pesci, rettili e anfibi. Questa ecatombe, secondo i ricercatori, si sarebbe consumata in appena quarantaquattro anni: tra il 1970 e il 2014.
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Per capire bene le proporzioni della catastrofe Mike Barrett, direttore esecutivo della conservazione del Wwf ha fatto un esempio efficace. “Se ci fosse un calo del 60 per cento nella popolazione umana, sarebbe equivalente allo svuotamento di Nord America, Sudamerica, Africa, Europa, Cina e Oceania”. Gli autori dello studio hanno inoltre sottolineato che la perdita della fauna selvatica, oltre a privarci della sua intrinseca meraviglia, rappresenta una minaccia per la nostra stessa specie. La fauna selvatica e gli ecosistemi sono infatti fondamentali per la vita umana. “La natura contribuisce al benessere umano culturalmente e spiritualmente – ha commentato Bob Watson, scienziato ambientale e presidente di un panel intergovernativo sulla biodiversità – ci fornisce inoltre cibo, acqua pulita ed energia, regola il clima e mitiga l’inquinamento. Il rapporto Living Planet dimostra chiaramente che le attività umane stanno distruggendo la natura a un ritmo inaccettabile, minacciando il benessere delle generazioni attuali e future”.
Per redigere il rapporto e monitorare il declino della fauna selvatica gli scienziati hanno analizzato i dati relativi a 16.704 popolazioni di vertebrati appartenenti a oltre 4mila specie, evidenziando l’insostenibile impatto della specie umana. È la prima volta nella storia del pianeta che una specie animale ha un impatto simile sugli ecosistemi ed è responsabile di un’estinzione di massa.
Ovunque posiamo lo sguardo l’impatto antropico sulla natura è evidente: tre quarti delle terre emerse sono profondamente influenzati dalle attività umane. La principale causa della perdita di fauna selvatica è la distruzione degli habitat naturali, soprattutto per creare terreni agricoli. Esistono però anche cause più dirette, oltre trecento specie di mammiferi sono sull’orlo dell’estinzione a causa della caccia, mentre gli oceani, che un tempo brulicavano di vita e celavano creature gigantesche, sono sempre più vuoti a causa della pesca industriale e dell’inquinamento da plastica. Anche l’inquinamento chimico minaccia la biodiversità, secondo un recente studio almeno metà delle popolazioni di orche è destinata ad estinguersi a causa degli inquinanti chimici presenti negli oceani. Altre cause sono l’introduzione di specie alloctone e, talvolta, la conseguente diffusione di malattie invasive. Le popolazioni di anfibi di tutto il pianeta, ad esempio, sono minacciate da un fungo chitride (a causa del quale oggi queste antiche creature sono la classe di animali più a rischio sul pianeta) che si pensa si stato diffuso a causa del commercio di animali esotici.
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Dal rapporto è emerso che le zone più colpite dal declino di animali sono l’America centrale e il Sudamerica, nelle quali le popolazioni di vertebrati avrebbero subito un calo addirittura dell’89 per cento, soprattutto a causa dell’abbattimento di vaste aree di foresta ricche di biodiversità. “È un classico esempio di come la scomparsa di fauna selvatica sia il risultato del nostro consumo di risorse – ha affermato Mike Barrett – poiché la deforestazione è guidata da un’agricoltura in continua espansione che produce soprattutto soia, che poi viene esportata in paesi come il Regno Unito per nutrire suini e polli”. Gli habitat più degradati sono invece fiumi e laghi, nei quali le popolazioni di animali selvatici sono diminuite dell’83 per cento, anche a causa dell’onnipresenza delle dighe.
Nonostante i numeri catastrofici possiamo ancora invertire questa tendenza e impedire la scomparsa di molte specie senza le quali il mondo sarebbe indubbiamente più triste. Grazie agli sforzi di conservazione, ad esempio, il numero di tigri del Bengala (Panthera tigris tigris) del Nepal è quasi raddoppiato in nove anni, dal 2016 il panda gigante (Ailuropoda melanoleuca) non è più classificato come a rischio estinzione e il camoscio appenninico (Rupicapra pyrenaica ornata), grazie ad uno straordinario progetto di reintroduzione avviato nel 2010, è tornato a popolare gli antichi territori nell’Italia centrale. La conservazione, però, non basta, l’aspetto più urgente da affrontare è il nostro ruolo di consumatori. “Non possiamo più ignorare l’impatto degli attuali insostenibili modelli di produzione e degli stili di vita dispendiosi che conduciamo”, ha affermato il direttore generale del Wwf internazionale, Marco Lambertini. È ormai innegabile lo stretto legame tra il sistema alimentare e il declino delle popolazioni animali, ridurre il consumo di carne è il primo indispensabile passo da compiere per arrestare l’emorragia di fauna selvatica.
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