Si è concluso il biennio di sperimentazione del reddito di cittadinanza in Finlandia. Nel bilancio pubblicato dal governo non mancano le sorprese.
Cos’è il reddito di cittadinanza, quali sono i requisiti per chiederlo nel 2019 e che effetti avrà sulla nostra economia
Cos’è il reddito di cittadinanza 2019, quali sono i requisiti per richiederlo e chi ne ha diritto. Ma soprattutto: riuscirà a far ripartire l’occupazione e l’economia in Italia?
A partire da oggi è online il sito ufficiale in cui gli italiani potranno trovare informazioni sul reddito di cittadinanza (rei) e, dal mese prossimo, presentare la loro domanda. È un giorno importante per il governo guidato da Giuseppe Conte e soprattutto per una delle due compagni politiche che lo sostengono, il Movimento 5 stelle, che anche su questa promessa aveva imperniato la sua campagna per le elezioni politiche del 2018. Prima ancora che venga consegnata la prima tessera, una cosa appare certa: è una misura divisiva, che è stata accolta da ferventi entusiasmi da un lato, mordaci polemiche dall’altro. Proviamo quindi a fare un po’ d’ordine per capire come funziona il reddito di cittadinanza e, con l’aiuto di alcuni esperti, ipotizzare le sue conseguenze per la nostra economia.
- La definizione da manuale di “reddito di cittadinanza”
- I requisiti per chiedere il reddito di cittadinanza 2019
- Il vincolo: impegnarsi a cercare lavoro
- Qual è la differenza con il reddito di inclusione
- Il ruolo (cruciale) dei centri per l’impiego
- Costi e benefici per la nostra economia
La definizione da manuale di “reddito di cittadinanza”
Come prima cosa, bisogna chiarire che quello italiano formalmente non è un reddito di cittadinanza. Tecnicamente, infatti, questa espressione indica un reddito che lo stato eroga a chiunque (ricco o povero, lavoratore o disoccupato) per il semplice fatto di essere un cittadino. Una misura di per sé molto costosa, che nel mondo è stata sperimentata in modo sporadico e molto limitato. L’unica considerevole eccezione è l’Alaska, che nel 1972 ha istituito un fondo statale finanziato con i proventi dell’industria petrolifera ed estrattiva. A partire dal 1982 questo fondo stacca ogni anno un dividendo per tutti i cittadini, che ha raggiunto un massimo di circa 2.000 dollari annui pro capite, per poi essere ridotto nel 2016 a causa di alcuni problemi di bilancio.
In Italia in questi mesi prenderà il via qualcosa di diverso, cioè (come si legge nella presentazione ufficiale del governo) “una misura di reinserimento nel mondo del lavoro che serve a integrare i redditi familiari”. Il vicepremier Luigi Di Maio, quando il 19 gennaio ha annunciato l’approvazione del pacchetto che comprendeva anche quota 100, si è espresso così: “Oggi nasce un nuovo welfare state in Italia, che aiuta le persone in difficoltà e che le mette al centro di una rivoluzione nel mondo del lavoro”
I requisiti per chiedere il reddito di cittadinanza 2019
Queste persone in difficoltà, che si collocano al di sotto della soglia della povertà assoluta indicata dall’Istat, in Italia sono circa 5 milioni (pari a 1 milione e 778mila famiglie). Per identificarle, la legge prevede una serie di requisiti: un Isee (Indicatore della situazione economica equivalente) inferiore a 9.360 euro annui, un patrimonio immobiliare fino ai 30mila euro annui (ad eccezione della prima casa) e un patrimonio finanziario non superiore a 6mila euro, che può arrivare a 20mila se in famiglia c’è una persona disabile. Identici i requisiti per i pensionati che vivono sotto la soglia di povertà, che possono richiedere la pensione di cittadinanza (fa eccezione solo il patrimonio finanziario, che sale a 8mila euro per le coppie).
L’incidenza della povertà assoluta, dice l’Istat, vola verso l’alto quando le famiglie sono composte da soli stranieri. Nonostante ciò, la legge prevede un paletto in più per gli extracomunitari, che devono essere residenti in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi due in via continuativa. Altrimenti, niente da fare. Secondo il Sole 24 ore, le famiglie di soli stranieri che avrebbero diritto al reddito di cittadinanza sono 256mila, ma se togliamo quelle escluse ne rimangono 164mila. Cioè il 12 per cento rispetto al milione e 322mila famiglie che lo riceveranno. Anche in questo caso, la platea potenziale è più ampia, ma la relazione tecnica di Palazzo Chigi stima che circa l’85 per cento degli aventi diritto farà davvero richiesta.
Massimo Baldini, che insegna Economia all’università di Modena e Reggio Emilia, ci ricorda che inizialmente i piani del Movimento 5 stelle erano molto più ambiziosi: “L’idea originaria era quella di coinvolgere anche i poveri relativi; sarebbe stata una misura enorme, molto generosa, che non aveva simili in Europa. In seguito, però, è stata ridimensionata per tanti motivi. Il primo è la mancanza di risorse, visto che la spesa stimata si aggirava sui 15-16 miliardi; poi c’è anche un motivo culturale, perché la proposta era stata tacciata di assistenzialismo. Da qui è molto cambiata, diventando strettamente legata al lavoro”.
Platea potenziale | Platea effettiva | |
---|---|---|
Italiani | 1.544.000 | 1.158.000 |
Stranieri | 256.000 | 164.000 |
Totale | 1.800.000 | 1.322.000 |
Il vincolo: impegnarsi a cercare lavoro
Il reddito di cittadinanza all’italiana sarà quindi un contributo mensile erogato tramite una card prepagata. L’importo varia a seconda delle condizioni specifiche del beneficiario: fino a 780 euro per una persona che vive da sola, fino a 1.180 euro per una famiglia con due figli minorenni, e così via.
C’è però una durata limite, pari a 18 mesi rinnovabili; ci sono alcuni vincoli (i soldi vanno spesi entro la fine del mese, ma non per il gioco d’azzardo); e soprattutto c’è un “doppio binario” da seguire per scongiurare le accuse di assistenzialismo citate dal professor Baldini. Chi è in grado di lavorare deve siglare il patto per il lavoro e la formazione, accettando le offerte che gli saranno proposte dal centro per l’impiego: la prima potrà arrivare entro 100 km dal luogo di residenza, la seconda entro 250 km, la terza da tutt’Italia. Questi requisiti diventano man mano più severi con il passare del tempo, ma per le famiglie di persone disabili la distanza-limite rimane di 250 km. Chi invece non è in condizioni di lavorare firma il patto per l’inclusione sociale, che coinvolge anche i servizi sociali. Restano esonerate da entrambi questi binari le persone con disabilità gravi e quelle che assistono bambini di età inferiore ai 3 anni o persone non autosufficienti.
Qual è la differenza con il reddito di inclusione
Il binario sociale, spiega il professor Baldini, è quello che si avvicina al reddito di inclusione, che era stato introdotto nel 2017 dal governo guidato da Paolo Gentiloni e che sarà cancellato a partire da aprile. Il binario del lavoro, viceversa, è una novità. “La differenza fondamentale tra le due misure secondo me è nella presa in carico: nel caso del reddito di cittadinanza è più semplice ricevere il trasferimento monetario, che è anche molto più alto soprattutto per i singoli. Nel reddito di inclusione c’è un rapporto più diretto coi servizi sociali del comune, che mediamente conoscono le famiglie in difficoltà”, spiega.
Durissimo il commento di ActionAid, ong che combatte la povertà in Italia e non solo: smantellare il reddito di inclusione è “un errore” e sostituirlo con il reddito di cittadinanza, senza confrontarsi con gli esperti, “rischia di generare caos e inefficacia, nonostante le nuove risorse a disposizione”.
Tutto l’impianto del decreto si basa sul presupposto che i “poveri non hanno voglia di lavorare”; ma sappiamo che non è così: ciò che impedisce alle persone di avere un lavoro dignitoso è il disallineamento tra domanda e offerta nel mercato del lavoro, l’insufficiente formazione delle persone, la mancanza di competenze trasversali, l’incompatibilità del lavoro con i carichi di cura, il circolo vizioso del lavoro irregolare sottopagato. Problemi questi che il decreto non affronta, ma cerca di aggirare: esentando dalla ricerca del lavoro chi ha dei carichi di cura (ma davvero vogliamo tenere ancora di più le donne fuori dal mercato del lavoro?), prevedendo sanzioni penali per chi ha il Reddito di Cittadinanza e contemporaneamente un lavoro irregolare (anche se sottopagato), inondando di persone i centri per l’impiego senza rafforzare le strutture che possono offrire formazione e percorsi di avvicinamento al lavoro alle persone.
Il generale, secondo il professor Baldini, “bisogna stare attenti a non fare coincidere in modo così meccanico la povertà con l’assenza di lavoro”, perché “il lavoro è una caratteristica individuale, mentre la povertà è una caratteristica familiare”.
Il principale problema del #redditodicittadinanza sta nella fretta con cui si è voluto realizzarlo. Su un tema delicato e in un contesto difficile, sarebbe stato più saggio aumentare progressivamente gli importi e la platea del reddito di inclusione.https://t.co/JUrQNVv3oj pic.twitter.com/CNYZ7oR5Pt
— Lavoce.info (@lavoceinfo) 21 gennaio 2019
“Chi è disoccupato non è quasi mai un trentenne abile e qualificato: molto spesso entrano in gioco problemi di salute (fisica e mentale) e capitale umano scarso. Quando un’occupazione c’è, sempre più spesso è precaria e a basso reddito. I dati Istat ci dicono che nella metà delle famiglie povere in Italia c’è almeno un soggetto che lavora, il che vuol dire due cose: il reddito è troppo basso e i carichi familiari sono elevati, quindi magari quello stipendio basta per una persona, ma non per tre o quattro”, conclude.
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Il ruolo (cruciale) dei centri per l’impiego
Per spingere sull’acceleratore dell’occupazione, sono stati introdotti sgravi contributivi per ogni azienda che assume un beneficiario del reddito di cittadinanza; a patto, però, che il contratto sia full time a tempo indeterminato (un requisito non da poco, visto che ci saranno molti soggetti esclusi da anni dal mercato del lavoro). È anche previsto un bonus per chi decide di mettersi in proprio dopo aver percepito il reddito di cittadinanza per un certo periodo.
Ai centri per l’impiego spetterà il delicato compito di fare da ponte tra domanda e offerta. L’interrogativo, dunque, è legittimo: sono pronti per farsi carico dell’ondata di richieste in arrivo? Il Monitoraggio sulla struttura e il funzionamento dei servizi per il lavoro 2017, pubblicato a giugno 2018 dall’Anpal (Agenzia nazionale politiche attive lavoro), rivela che la rete sul territorio è composta da 501 centri per l’impiego “principali” (cioè direttamente collegati al coordinamento provinciale o regionale), 51 sedi secondarie e 288 sedi distaccate o sportelli territoriali. Il loro personale in tutt’Italia è pari a 7.034 addetti: la Sicilia da sola ne conta 1.737, il 22 per cento del totale, seguita da Lombardia (775) e Lazio (687). Ciascuno di loro, già lo scorso anno, aveva in carico una media di 380 persone. Tutto ciò, spesso, senza disporre di una dotazione informatica adeguata (è quanto dichiara il 46 per cento dei centri interpellati) o di una connessione a internet veloce (36 per cento).
Non stupisce quindi il fatto che la legge di bilancio stanzi fino a un miliardo di euro l’anno, sia nel 2019 sia nel 2020, per potenziare i centri per l’impiego, con 10 milioni di euro nel 2019 per Anpal Servizi Spa. Il governo ha garantito che in questi mesi saranno assunti 6mila “navigator”, i coach che affiancheranno gli utenti. Al momento, il sito dell’Anpal non fornisce altri dettagli.
Costi e benefici per la nostra economia
Oltre al miliardo di euro destinato ai centri per l’impiego, per il reddito di cittadinanza lo stato spenderà 6,11 miliardi nel 2019, che diventeranno 7,75 nel 2020, 8,01 nel 2021 e 7,84 nel 2022. Una spesa che – secondo la relazione tecnica – innescherà un aumento del lavoro e dei consumi, che farà crescere la nostra economia.
Riassumendo all’osso e semplificando molto, infatti, si possono distinguere diversi approcci alla gestione della spesa pubblica. Quello dell’austerità, che ha pressoché monopolizzato le politiche europee negli ultimi dieci anni, prevede di tirare la cinghia: se il pil crolla e le aziende sono in difficoltà, lo stato deve cercare di spendere il meno possibile, anche a costo di sforbiciare scuola, sanità, servizi sociali. Una scelta che è stata portata alle estreme conseguenze in Grecia. Sul fronte opposto si collocano le posizioni keynesiane che invece puntano sugli investimenti pubblici, che innescano un effetto denominato “moltiplicatore”: ogni euro speso, in sintesi, fa crescere proporzionalmente l’economia.
Secondo il modello economico applicato nella relazione tecnica del governo, i 6,1 miliardi spesi nel 2019 per il reddito di cittadinanza avranno un impatto aggiuntivo sul pil reale pari allo 0,1 per cento, che salirà allo 0,2 per cento negli anni successivi. Possiamo dire quindi che sia una misura keynesiana? “No, o soltanto in modo molto marginale”, risponde netta Laura Pennacchi, che dirige la Scuola per la buona politica della Fondazione Basso e coordina il Forum economia nazionale della Cgil. “Per Keynes quello che conta davvero è la spinta agli investimenti. Anche analisi più recenti condotte dal Fmi (Fondo monetario internazionale) e dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) concordano sul fatto che il moltiplicatore di una spesa pubblica per trasferimenti monetari, come appunto il reddito di cittadinanza o un taglio delle tasse, è pari a 0,5. Il moltiplicatore di una spesa per investimenti invece arriva addirittura a 3”.
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Un’opera come “Prospettive economiche per i nostri nipoti” risale agli anni Trenta, continua Pennacchi, ma si mostra molto in anticipo sui tempi nel dare un avvertimento: non possiamo limitarci a rincorrere i numeri della crescita economica, ma dobbiamo anche fermarci a riflettere sul nostro modello di sviluppo. “Questo elemento è diventato molto più importante oggi, visto che siamo di fronte a una crisi climatica devastante e nel nostro Paese dobbiamo soddisfare una serie di bisogni sociali che vanno dal dissesto idrogeologico, all’istruzione, ai beni culturali, alla tutela dell’infanzia e via dicendo – spiega –. In questo senso, una spesa corrente per un trasferimento monetario è assolutamente irrilevante, perché non modifica nulla. Assistiamo a una deresponsabilizzazione dell’operatore pubblico: quando c’è un problema, dare una compensazione monetaria ex post è molto più facile che risolverlo. Quello che occorre, al contrario, è una spesa per investimenti orientati alla piena occupazione e alla qualità della vita. Eppure, nei prossimi tre anni l’Italia spenderà 40 miliardi per i trasferimenti monetari e 10 per gli investimenti”.
Foto in apertura © Jacek Dylag / Unsplash
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