La Cop16 sulla biodiversità si conclude con pochi passi avanti. Cosa resta, al di là della speranza?
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Nikolai Maximenko e Jan Hafner dell’università delle Hawaii spiegano i risultati dei loro studi sulla circolazione degli oceani e sui rifiuti che si nascondono al loro interno al Wwf di Milano.
Ogni anno finiscono negli oceani di tutto il mondo circa otto milioni di tonnellate di plastica, delle quali soltanto ottomila vengono rimosse da associazioni e volontari. Col passare del tempo e con l’erosione dell’acqua i rifiuti diventano sempre più piccoli, fino a ridursi a delle particelle praticamente invisibili a occhio nudo chiamate microplastiche. Ciò che ne deriva è una vera e propria “zuppa di plastica”. Così l’ha definita lo scienziato Nikolai Maximenko che, insieme a Jan Hafner del Centro internazionale di ricerca sul Pacifico, hanno esposto i loro studi sulle isole di rifiuti e sulla microplastiche contenute negli oceani durante la presentazione di venerdì 22 settembre alla sede del Wwf di Milano, dal titolo L’inquinamento della plastica attraverso gli occhi della scienza.
Gli scienziati hanno sottolineato che gli accumuli di detriti che si creano nelle acque sono molto pericolosi per la navigazione, per i turisti e per le specie marine, che non solo possono ingerire le microparticelle di plastica, ma possono addirittura colonizzare quelle più grandi e spostarsi così da un luogo all’altro, andando a modificare interi ecosistemi.
Maximenko e Hafner hanno parlato della difficoltà di creare modelli che studino il movimento delle microplastiche negli oceani, a causa soprattutto dei venti. Per questo è necessario usare strumenti molto sofisticati, satelliti e boe galleggianti che permettono di raccogliere i detriti. In più, molti rifiuti sono impossibili da rintracciare: le ipotesi riguardo a questa “sparizione” sono diverse. Alcuni si depositano sui fondali, altri si trasformano in frammenti ancora più piccoli detti nanoparticelle, altri ancora finiscono nei ghiacciai artici, sulle spiagge o nelle aree disabitate della Terra. Non dimentichiamo poi che molti vengono ingeriti dai pesci, dagli uccelli e dagli altri animali marini.
Su @repubblica la storia di Fabio la tartaruga quasi uccisa dalla plastica e che viene curata al centro @WWFitalia di Policoro @donabianchi1 pic.twitter.com/w74MKvJaeb
— WWF Italia (@WWFitalia) 24 settembre 2017
I ricercatori dell’università delle Hawaii hanno creato un modello per scoprire dove fossero i detriti trasportati dallo tsunami che ha colpito il Giappone l’11 marzo del 2011. Gli scienziati hanno formulato delle ipotesi sul loro percorso basandosi su osservazioni e analisi matematiche. A conferma delle previsioni di Maximenko e Hafner, nel settembre del 2011 la nave russa Pallada ha scoperto nelle acque al largo dell’atollo di Midway, a ovest delle Hawaii, un peschereccio giapponese. Lo tsunami ha trasportato 1,5 milioni di tonnellate di materiale tra cui anche grandi contenitori, reti da pesca, parti di frigoriferi e pezzi di legno, portandoli in Canada e Stati Uniti. Addirittura, un intero blocco della banchina del porto di Misawa è stato rinvenuto in Oregon: su questa piattaforma galleggiante hanno viaggiato oltre cento specie animali e vegetali, tra cui stelle marine, granchi, alghe e persino insetti.
“Mentre per altri mali, come il cancro, purtroppo non c’è soluzione, per sostituire la plastica la soluzione c’è”, ha detto Marco Astori, fondatore di Bio-on, azienda promotrice dell’incontro che ha creato un bio polimero in grado di biodegradarsi nell’acqua e che potrebbe quindi essere una valida alternativa alla plastica. Bio-on intende promuovere gli studi sulle microplastiche anche nel Mediterraneo.
“Se non agiamo alla fonte, qualunque cosa puliamo si creerà di nuovo, e si ripresenterà”, è il monito degli oceanografi hawaiani, senza contare che le microparticelle di plastica finiscono anche nell’acqua potabile. Secondo Maximenko e Hafner è necessario portare avanti le ricerche ed è incoraggiante che ci siano giovani scienziati impegnati su questo argomento.
“È impossibile non vedere il problema, ed è ora di diventarne consapevoli”, hanno aggiunto i due ricercatori. E c’è chi consapevole lo è diventato davvero: non sono poche, infatti, le città che si stanno muovendo nella direzione giusta. San Francisco ha vietato la vendita di bottiglie di plastica, a Londra il noto mercato Borough Market farà lo stesso nel giro di qualche mese e dal 2012 il Costa Rica eliminerà gradualmente la plastica usa e getta.
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