I rohingya saranno rimpatriati. Accordo tra Bangladesh e Myanmar

Un accordo tra i governi bengalese e birmano è stato raggiunto il 16 gennaio. Entro due anni, i musulmani rohingya potranno tornare nella loro terra. I dubbi di Amnesty International

Il Bangladesh e il Myanmar (ex Birmania) hanno raggiunto un accordo nella giornata di martedì 16 gennaio, al fine di permettere ai circa 650mila rifugiati musulmani rohingya di tornare “entro due anni” nella provincia occidentale birmana nella quale hanno vissuto fino all’autunno 2017, quando militari e milizie locali hanno lanciato una violenta repressione etnica ai loro danni.

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Previsti 300 rimpatri di rohingya al giorno per due anni

La decisione è stata ufficializzata al termine di una riunione tenuta nella capitale del Myanmar, Naypyidaw, alla quale hanno partecipato il segretario generale del ministero bengalese degli Affari Esteri, Mohammed Shahidul Haque, e il suo omologo birmano Myint Thu. Le parti si sono impegnate a portare a termine l’operazione entro l’inizio del 2020 e ad avviarla “a partire dai prossimi giorni”, secondo le informazioni fornite all’agenzia Afp dall’ambasciatore del Bangladesh nel Myanmar. I rimpatri dovrebbero essere effettuati al ritmo di 300 al giorno.

La prima ondata dovrebbe riguardare circa 30mila persone, che alloggeranno in 625 abitazioni in corso di costruzione nel distretto di Maungdaw, nel nord dello stato dell’Arakan. Saranno inoltre costruiti cinque campi di transito al fine di effettuare “le verifiche sull’identità” imposte dal governo birmano. Quest’ultimo – che non ha mai riconosciuto i musulmani rohingya come appartenenti ad una delle 135 etnie nazionali – ha fatto sapere che accetterà soltanto i rifugiati che possono provare di essere stati residentinel Myanmar prima dell’esodo.

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I musulmani rohingya sono stati costretti nell’autunno 2017 ad abbandonare le loro terre nel Myanmar e a rifugiarsi in Bangladesh © Dan Kitwood/Getty Images

Le complesse condizioni imposte dal governo del Myanmar

Si tratta di una clausola che occorrerà verificare con grande attenzione, dal momento che spesso i rohingya sono privi di documenti, proprio in quanto “de facto apolidi”. Molti, inoltre, potrebbero aver perduto i permessi provvisori di soggiorno nella fuga disperata verso il Bangladesh. Da verificare, inoltre, le condizioni nelle quali nei prossimi due anni saranno costretti a vivere i rifugiati, nonché il fatto che il rientro a casa possa essere effettuato in totale sicurezza.

Un altro aspetto da comprendere, infine, è quello legato alla reale volontà dei rifugiati di tornare a casa. Molti di loro potrebbero temere di doversi scontrare nuovamente con l’odio di una parte della popolazione birmana, che secondo quanto riferito dai media internazionali ha partecipato ad esecuzioni sommarie, stupri di massa e incendi di interi villaggi rohingya. La stessa organizzazione non governativa Amnesty International ha parlato di “allarmante fretta” e di “rimpatrio prematuro” per persone che hanno sofferto violenze così drammatiche.

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