
Abbiamo chiesto a chi sta vivendo i tagli voluti dal governo di Washington, di raccontarci la loro esperienza. A rischio il progresso e il futuro stesso del nostro pianeta.
È una delle persone più autorevoli al mondo, con esperienza in Italia, in Europa e alle Nazioni Unite. E ora ha messo la sua competenza al servizio dello sviluppo sostenibile, a partire dalla gestione dell’acqua. L’intervista al professor Romano Prodi.
È stato primo ministro italiano per due volte e presidente della Commissione europea. Professore all’Università di Bologna, presiede il gruppo di lavoro tra Nazioni Unite e Unione africana sulle missioni di peacekeeping in Africa. E dal 2012 è stato inviato speciale del segretario Generale delle Nazioni Unite per il Sahel, la fascia di territorio africano che si estende sotto il deserto del Sahara unendo l’oceano Atlantico al mar Rosso.
È Romano Prodi che, dopo aver dato vita alla Fondazione per la collaborazione tra popoli, viene sempre più spesso chiamato a portare la propria testimonianza frutto di un’esperienza unica all’interno di iniziative che riguardano lo sviluppo sostenibile dell’Africa e del resto del mondo. Come il 21 marzo al Labirinto della Masone, in provincia di Parma, dove si è tenuta la prima edizione di Labirinto d’acque, un summit biennale organizzato in occasione della Giornata mondiale dell’acqua e dedicato al bene più prezioso, l’unico che ha consentito l’inizio della vita sul nostro pianeta, la Terra.
Prodi, in questa occasione, ha parlato, tra le altre cose, anche dello stato di salute del lago Ciad, uno dei bacini idrografici che più stanno vivendo gli effetti negativi del riscaldamento globale, come la desertificazione e la siccità. La sua testimonianza è stata colma di amarezza perché dal 2015 a oggi non è stata organizzata nessuna spedizione sul campo da parte del gruppo di lavoro internazionale delle Nazioni Unite per verificare la situazione. Eppure intorno al lago, ormai dichiarato inaccessibile dagli stati che controllano il territorio per la presenza dei terroristi di Boko haram, la popolazione continua ad arrivare, stressando ancor di più un territorio al collasso. Intorno al bacino oggi vivono quasi 50 milioni di persone. Erano 21 milioni del 1991.
L’acqua, elemento che rappresenta la vita, è anche il simbolo di una delle minacce più gravi del nostro tempo, quella dei cambiamenti climatici. Uno dei rischi è che tra soli vent’anni oltre 5 miliardi di persone non abbiano acqua a sufficienza. Come abbiamo fatto a trasformare l’origine della vita in una fonte di conflitto?
Il mondo è rimasto senza un’autorità, senza un coordinamento. Senza autorità, i paesi e i popoli sono abbandonati a se stessi. È chiaro che così si rovina tutto, che il conflitto diventa normale. Non sempre, però, conflitto è sinonimo di guerra: può essere un conflitto d’interessi, una politica che non tiene conto della presenza degli altri. Io sono dispiaciuto, ma non sorpreso di vedere questo “disordine” sull’acqua perché al giorno d’oggi lo vedo in tutte le manifestazioni a livello mondiale. Il potente domina sul meno potente. È per questo che ho insistito tanto per dar vita un’autorità mondiale dell’acqua che metta quanto meno in luce i problemi. Poi è chiaro che, vista la debolezza delle Nazioni Unite in certe situazioni, non mi illudo che ci possa essere un’autorità dell’acqua che abbia il controllo generale, ma che almeno faccia progredire il senso dell’interesse collettivo.
Nel 2015 a Expo, parlando del lago Ciad ha lanciato l’allarme dei pericoli sociali legati allo svuotamento di questo bacino africano. Oltre a essere un dramma per la biodiversità, rappresenta un problema per la questione delle migrazioni. “Cosa stiamo aspettando? Che arrivino in milioni sulle nostre coste?”, aveva detto. Cosa è cambiato in questi due anni?
Questo entra nel grande problema dei rifugiati. Mi rendo conto che non è facile trattare i rifugiati climatici in modo particolare o diverso e mi rendo conto anche del fatto che non c’è stata un’azione integrata per l’Africa che è il centro del mondo in questo momento. Se non si mettono insieme l’Europa e la Cina, anche se questa affermazione può sembrare assurda, il problema dei migranti diventa irrisolvibile: o si mettono insieme le forze e le energie di entrambi, oppure non faremo mai fare all’Africa un salto in avanti, come è giusto che faccia.
I cinesi sono i più attivi in Africa perché, avendo solo il 7 per cento delle terre arabili e il 20 per cento della popolazione mondiale, hanno bisogno di trovare energia, terra e materie prime. Quindi per loro l’Africa rappresenta l’espansione territoriale e in questi anni hanno fatto delle cose interessanti, ma che li hanno resi antipatici perché vengono ritenuti potenti oltre misura. Gli europei hanno a loro volta l’eredità del colonialismo sulle spalle; quindi solo mettendo insieme Europa e Cina si possono stemperare gli interessi particolari nell’interesse generale di tutti noi. Ma se lei mi chiede se questo momento è vicino, io le rispondo di no. Il punto di compromesso è un progetto per l’Africa, che vuol dire investimenti che non abbiano il sapore né di sopraffazione, né di colonialismo.
Non solo lago Ciad. Anche la questione del fiume Nilo e del suo sfruttamento sta creando tensioni, in particolare tra Etiopia ed Egitto. Quali sono gli hotspot più caldi dell’Africa?
Tutta la zona subsahariana fino ad arrivare alla Repubblica Democratica del Congo compresa. Questa è la zona più drammatica. Mentre dal punto di vista del potenziale esplosivo dal punto di vista demografico, la Nigeria domina su tutto il resto. Lo sa che a metà secolo la Nigeria avrà lo stesso numero di abitanti dell’Unione europea?
E qual è invece un posto in Africa che sta facendo ben sperare?
La crescita africana, in generale, non è male. Negli ultimi dieci anni c’è stato un inizio di fermento e di speranza. L’Africa, presa nel suo insieme, cresce più velocemente della media mondiale, però con l’aumento demografico in corso, la crescita dei singoli paesi risulta assai limitata. Ma, ripeto, l’inizio di una trasformazione c’è, ma il punto di partenza è molto basso. Nonostante il buon andamento degli ultimi dieci anni, la partecipazione africana al contesto mondiale è in percentuale la stessa degli anni Ottanta.
Affrontare la sfida dei cambiamenti climatici significa, allo stesso tempo, combattere le disuguaglianze e promuovere l’inclusione sociale. Lei di recente ha guidato una task force di esperti che ha prodotto un New deal europeo per potenziare le infrastrutture sociali. In che modo questo può influire proprio sul tema della lotta alle disuguaglianze?
Questo è un capitolo molto importante perché l’Europa, che è stata la culla dello stato sociale, dal 1980 in poi ha cominciato a spendere percentualmente sempre meno per lo stato sociale a causa dell’arrivo di nuove dottrine, interessi diversi. Poi c’è stato il crollo definitivo con la crisi economica: dal 2008 in poi l’arretratezza degli investimenti nello stato sociale è enorme e gli enti locali responsabili della sua gestione hanno avuto sempre meno risorse a disposizione.
Il New deal per l’Europa dice che con tutte le banche europee, quindi le casse depositi e prestiti dove esistono e, in alternativa, le banche pubbliche, debbano unirsi per realizzare un grande progetto per il recupero del tempo perduto con la crisi. Con la garanzia pubblica si possono fare investimenti a tassi di interesse molto bassi senza nulla togliere alla competenza delle nazioni e delle autorità locali, che rimangono coloro che definiscono le politiche per il sociale. Allo stesso tempo però dà loro i mezzi, gli investimenti, perché possano raggiungere l’obiettivo. Poi come gestirli è compito loro. Quelli che sono senza mezzi trovano in questo progetto un grande rifornimento di strumenti materiali, a costi davvero abbordabili, quindi possono veramente fare un salto in avanti. Per ora l’accoglienza della Commissione europea e delle autorità è stata molto buona, adesso bisogna correre all’implementazione.
Cosa si aspetta dalla nuova legislatura sulle tematiche legate alla sostenibilità, a partire dal clima?
La sostenibilità, se Dio vuole, sta diventando coscienza comune. Non è ancora diventata politica comune. Spero lo diventi in futuro.
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