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Rosso marcio. Un racconto del lato oscuro dell’industria del pomodoro, e del capitalismo
Con un’inchiesta di due anni nel mondo del pomodoro industrializzato, il giornalista francese Jean-Baptiste Malet ha scoperto una storia di globalizzazione dai risvolti oscuri. Un libro e un documentario cercano di fare luce.
È l’ingrediente principale della gastronomia italiana, nonché alimento fondamentale della cucina di moltissimi popoli. Che sia usato sotto forma di passata, di pelati, di salsa o di concentrato, il pomodoro è a tutti gli effetti un alimento universale. Nonostante ciò, in pochissimi immaginano cosa si celi dietro la sua storia. E in particolare dietro la sua storia recente, che vede l’amato ortaggio al centro di una lotta internazionale, condotta senza esclusione di colpi e a danno dei più deboli. A svelarne i retroscena è un’inchiesta realizzata dal giornalista francese Jean-Baptiste Malet, già autore del libro En Amazonie – Un infiltrato nel “migliore dei mondi” (Kogoi Edizioni), con cui ha raccontato cosa succede nei depositi del colosso Amazon.
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Questa volta il giornalista investigativo, insieme al regista e giornalista Xavier Deleu, ha dedicato due anni alla ricerca della verità sull’oro rosso, viaggiando in tutto il mondo e incontrando i protagonisti dell’industria del pomodoro. I suoi incontri sono ora racchiusi in un libro e in un documentario. Il libro, già un successo in Francia, è stato tradotto in diversi Paesi, tra cui l’Italia, dove Piemme lo ha pubblicato col titolo Rosso marcio.
Il documentario, L’empire de l’or rouge (L’impero dell’oro rosso) ha suscitato scalpore ed è approdato alla 21esima edizione di Cinemabiente, il festival di Torino dedicato al cinema per l’ambiente (31 maggio – 5 giugno). È proprio nel capoluogo piemontese che abbiamo visto il documentario e incontrato Malet, venendo a conoscenza di una storia incredibile fatta di globalizzazione, paradossi e ingiustizie.
Che l’oro rosso sia finito nelle mire dei più ambiziosi industriali non stupisce, se si pensa che il pomodoro alimenta una filiera dal fatturato annuo di 10 miliardi di dollari. Tanti soldi, sempre più “concentrati” nelle mani di pochi, in una competizione che oggi si gioca soprattutto tra Cina, Stati Uniti e Italia.
Per raccontarla Malet si è spostato tra gli stabilimenti cinesi, gli immensi campi di raccolta californiani, i nuovi centri di produzione africani e le baraccopoli pugliesi. In questi luoghi chiave il giornalista ha incontrato vincitori e vinti di questa storia, ripercorrendo anche i principali eventi e momenti che hanno visto il concentrato di pomodoro trasformarsi, nell’ultimo secolo e mezzo, nell’ambitissimo oro rosso.
Da dove ha preso le mosse questa inchiesta sull’industria del pomodoro?
Nel 2011 stavo portando avanti un’inchiesta politica nel nord della Provenza, in Francia, quando casualmente ho scoperto che Le Cabanon, uno stabilimento storico di produzione industriale di pomodoro francese era diventato cinese. La cosa mi ha subito incuriosito perché si trattava del più grande stabilimento francese. Così ho bussato alla porta e ho chiesto di poter fare delle domande, ma mi è stato risposto che non parlavano con i giornalisti. Mentre ero lì ho notato dei grandi fusti blu con la scritta “made in China”, che ho rivisto poi anche in Italia, e mi sono chiesto “come mai il concentrato di pomodoro arriva dalla Cina, in posti dove i pomodori sono sempre stati coltivati?”.
Ha deciso così di iniziare la sua inchiesta?
Sì, ho intuito che si trattava di una storia di globalizzazione e che attraverso l’industria del pomodoro era possibile raccontare il capitalismo. Così ho viaggiato tra la Cina, gli Stati Uniti, l’Africa e l’Italia e sono riuscito a tracciare un quadro completo di questo mercato. Non è stato semplice, ci ho messo due anni.
Cosa ha scoperto?
La storia del prodotto più universale al mondo. A proposito di Le Cabanon, ho scoperto che era stato acquistato dall’esercito cinese e negli ultimi venti anni la Cina è diventata uno dei principali player nel mondo del pomodoro industrializzato. In sintesi: l’industria del pomodoro è sempre più concentrata nelle mani di pochi a discapito dei più piccoli.
Come ha fatto la Cina a decollare in questo settore?
Sono stati degli industriali italiani a insegnare il mestiere ai cinesi, esportando lì i macchinari made in Italy e chiedendo in cambio il prodotto. Dietro il successo della Cina, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, c’è stata un’ingente importazione fatta dai colossi dell’industria conserviera in Campania, più precisamente di Salerno. Il gruppo Petti (in riferimento alla Antonio Petti fu Pasquale S.p.A. che destina i prodotti all’esportazione fuori dall’Italia ndr) insieme al “re del pomodoro” Antonino Russo sono stati per anni grossi clienti della Cina. Gino, una marca importante di scatole di concentrato di pomodoro cinese, molto conosciuta in Africa, è nata a Salerno.
Il vantaggio della Cina sta nell’abbattimento dei costi di produzione?
Sì, nella mia inchiesta parlo, in particolare, della situazione nello Xinjiang, un territorio dove gli uiguri (una etnia turcofona di religione islamica, annessa alla Cina nel 1949, ndr) vivono un terribile sfruttamento. Qui si trovano anche tanti Laogai, i campi di riforma attraverso il lavoro forzato. Questa realtà permette un lavoro a bassissimo costo, vicino alla schiavitù. I lavoratori stagionali guadagnano 0,01 centesimi di euro per ogni chilo raccolto, per una media di circa 25 euro al giorno.
Anche all’interno degli stabilimenti ha fatto delle scoperte interessanti, giusto?
Nella zona portuale di Tianjin ho visitato dei conservifici e ho scoperto che, per abbattere ulteriormente i costi, alcuni produttori cinesi aggiungono al concentrato di pomodoro una polvere bianca che consiste in un miscuglio di sostanze addensanti. Il problema è che non viene indicato sulle etichette.
L’aspetto più inquietante di tutta questa storia è che il concentrato di pomodoro cinese viene esportato nel mondo sotto mentite spoglie. Precisamente spoglie italiane, com’è possibile?
Ogni anno un milione di tonnellate di concentrato di pomodoro lascia il porto di Tianjin in barili blu. Mille di queste arrivano ogni settimana a Salerno, dove, prima di inscatolarlo, l’industria italiana lo trasforma, aggiungendo semplicemente acqua e sale. Il packaging utilizzato spesso riporta la bandiera tricolore e usa nomi italiani. Ovviamente in questo modo chi lo acquista è convinto di mangiare pomodoro coltivato in Italia.
Questi prodotti dove finiscono? Rimangono sul territorio italiano?
Secondo l’Anicav (Associazione nazionale industriali conserve alimentari vegetali), no. Passano solo dall’Italia, per poi essere esportati in tutta l’Europa, in Africa e in molti altri Paesi. La cosa vergognosa è che la bandiera e la reputazione di un bel Paese come l’Italia, capace di produrre la migliore qualità, vengano utilizzati per vendere agli stranieri un prodotto cinese di bassa qualità! Questo dovrebbe essere vietato, perché rovina la credibilità stessa degli industriali italiani. L’ideologia del libero scambio e l’importazione del prodotto cinese sul mercato comune è un disastro per le filiere europee.
Come fa un consumatore a scoprire l’origine di ciò che acquista?
Si può essere sicuri della provenienza di un prodotto solo se l’etichetta riporta esplicitamente l’informazione. Purtroppo questo spesso non accade perché la legge lo prevede solo per alcuni prodotti. Per esempio per il ketchup, non è obbligatorio. Da dove vengono i pomodori usati per il ketchup di Heinz, per esempio? L’etichetta non lo dice.
Cosa si può fare per far sì che la situazione cambi?
Si deve passare attraverso la politica, cambiare la legge e le regole del mercato. In Europa, secondo me, si dovrebbe mangiare un pomodoro europeo. In Africa, africano. In Cina, cinese. Non parliamo di un prodotto difficile da produrre!
Anche l’Africa è diventato un Paese chiave nell’industria del pomodoro. Come mai?
Perché in Africa c’è il maggiore consumo pro-capite di derivati del pomodoro. Io sono stato in Ghana, un Paese con un’economia in forte crescita e dove le abitudini alimentari stanno cambiando a causa della globalizzazione. Negli ultimi quindici anni le importazioni dall’estero cresciute in modo drammatico. Qui i lavoratori sono pagati quattro volte meno di quelli cinesi. Lo stipendio è di circa 100 euro al mese. Ma il vero problema è che il mercato libero ha stroncato la filiera locale e molti piccoli produttori hanno dovuto chiudere le proprie attività.
E qui arriviamo alla situazione nell’Italia meridionale…
Sì, perché i lavoratori e gli agricoltori africani, che hanno perso tutto si sono spostati in Suditalia dove, ironicamente, si sono ritrovati a raccogliere pomodori. Io sono stato a Foggia, dove circa 30mila migranti lavorano in campi troppo piccoli per essere lavorati in modo meccanico. Sono pagati 20 euro per 10-12 ore di lavoro sotto il sole cocente.
La sua inchiesta ha smosso qualcosa?
Dopo il mio libro e il documentario, che è stato visto da oltre un milione di persone soltanto in Francia, le cose sono un po’ cambiate. Un’importante insegna di supermercati, per esempio, ha inserito l’indicazione su molti prodotti. Ma una reale svolta sarà possibile solo se cambierà la legge, obbligando tutti i produttori a indicare sempre la provenienza degli alimenti sulle confezioni.
Quali sono state le sue considerazioni conclusive, alla fine di questa inchiesta?
Io trovo che non mangiare pomodoro europeo in Europa sia una follia. Chi afferma che il libero scambio sia sempre positivo fa dell’ideologia. La realtà, invece, è che questo sistema porta i contadini africani a morire su dei barconi. Il prodotto cinese costa meno perché i lavoratori cinese sono trattati come schiavi, sottopagati e perché le norme ambientali sono meno restrittive. Il prodotto, quindi, è meno controllato e di qualità inferiore, ma passa le nostre frontiere in virtù del libero scambio e della globalizzazione. Si tratta, a tutti gli effetti, di una competizione impari e dannosa e io mi chiedo che senso abbia tutto ciò e per quanto potrà durare. Il capitalismo senza regole è follia pura.
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