“Il nostro obiettivo è sempre stato quello di trasformare un rifiuto in qualcosa di meraviglioso”. L’intervista a Matteo Longo, direttore generale di Bioforcetech.
Schiavitù, ieri e oggi. Una parola antica, un’omertà moderna
Da 20 a 45 milioni di persone sono gli schiavi moderni, nel mondo. In catene bambini, donne, migranti, in tutti i continenti. Pare che il giro d’affari della schiavitù globale sia ancora miliardario, anche se le stime sono offuscate dall’omertà, dall’ignoranza, dalla povertà, dall’arretratezza dei sistemi giuridici, dalla pochezza dei mezzi di tracciabilità.
La schiavitù moderna, la schiavitù oggi
Al mondo, su mille persone, tre sono schiave. Dai 20 ai 45 milioni di persone a seconda delle (tristi) stime. I tre quinti di sesso femminile, i due quinti maschi. Oltre un quarto sono minori: in tutto il mondo da 6 a 10 milioni di bambine e bambini sono costretti ai lavori forzati, vittime dei traffici sessuali o segregati come sguatteri.
L’International Labour Organization stima che i lavori forzati generino proventi illeciti per 150 miliardi di dollari l’anno: è la seconda fonte di profitto della criminalità organizzata, dopo le droghe.
Esistono lavori forzati, tratta di minori e di donne, schiavitù domestica, prostituzione forzata, schiavitù sessuale, matrimoni forzati, vendita delle mogli, reclutamento di bambini in guerra.
È passato un secolo e mezzo da quando Abraham Lincoln ha abolito la schiavitù, ufficialmente. Quasi settant’anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che la vieta. Ma ancora oggi sono tantissimi i lavoratori sfruttati sull’orlo della schiavitù e il confine tra questa e i lavori più infami e degradanti è labile, a seconda delle coordinate geografiche e culturali.
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La schiavitù moderna, il Global slavery index, la schiavitù in Italia
Si possono far rientrare nella definizione di schiavitù oggi i lavori forzati, le prestazioni professionali svolte non volontariamente o dietro compenso bensì sotto minacce o costrizioni fisiche. Rientrano in questo nero novero anche la prostituzione, la tratta di umani, lo schiavismo sessuale.
Non si considerano – secondo l’Ilo – forme di schiavitù, invece, i lavori sottopagati o svolti in condizioni ambientali inadeguate, e non si include nel conteggio qualsiasi fenomeno di costrizione, come l’adozione o il matrimonio forzati o il traffico di organi.
Le Nazioni Unite definiscono così il traffico di esseri umani:
Il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite la minaccia o l’uso della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di danaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento.
Dunque, nella definizione dell’Unodc, oltre allo sfruttamento sessuale, diretto o a scopo commerciale, altre destinazioni del traffico di esseri umani sono il lavoro forzato, l’espianto di organi per il mercato nero e la schiavitù in senso stretto.
Una stima più allargata che invece include le altre forme di schiavitù moderna è stata proposta dalla Walk Free Foundation che da quattro anni stila il Global Slavery Index – meritoriamente sostenuto da opinion leader e personaggi pubblici come Bill Gates, Bono Vox, Richard Branson, Hillary Clinton, Muhammad Yunus, Gordon Brown, Tony Blair e molti altri.
Secondo il calcolo più onnicomprensivo, gli schiavi nel mondo oggi sono 45,8 milioni.
In cifre assolute, il 58 per cento delle persone schiave al mondo vivono tutte in 5 Paesi: India, Cina, Pakistan, Bangladesh, Uzbekistan. In termini percentuali, pare che il 4,4% della popolazione della Corea del Nord possa considerarsi in schiavitù. Anche in Mauritania si sta male. Ma incredibilmente nessuno dei 167 Paesi considerati dall’indice ne è completamente privo. C’è persino l’Italia, al 141° posto al mondo, dove si troverebbero 129.600 persone in stato di schiavitù. In tutta Europa 1,2 milioni di persone possono considerarsi schiave (Turchia e Macedonia hanno lo 0,6% della popolazione in condizione di schiavitù). I conflitti in Iraq, Afghanistan, Siria, Yemen e Libia esacerbano il problema, con il flusso di migranti e di rifugiati.
I continenti più problematici rimangono Asia e Africa. Ci sono sacche di schiavitù in Sudamerica, nei Balcani e nell’Est europeo. Nel subcontinente indiano, comunque, il governo sta mettendo in atto misure speciali per contrastare le diverse forme di schiavitù: ha recentemente rivisto il codice penale e ha rinforzato le unità di polizia contro il traffico di umani.
La schiavitù sessuale, prostituzione e tratta di donne
L’Ilo ha stimato in 12 milioni e 300 mila le persone sottoposte a sfruttamento sessuale per un volume complessivo d’affari sporchi di 32 miliardi di dollari all’anno.
Prezzate, vendute, esportate, barattate, umiliate, le vittime finiscono nelle mani dei loro sfruttatori finali. La tratta a scopo di sfruttamento sessuale è diffusa in tutto il mondo.
Pare che lo scenario economico di crisi diffusa abbia favorito un aumento del business mondiale dello sfruttamento schiavistico in mano a organizzazioni illegali. Come i negrieri dell’antichità, grandi gruppi criminali spesso transnazionali reclutano e catturano le donne con la forza, la minaccia o l’inganno, ma anche con mezzi più subdoli, approfittando della condizione di povertà in cui si trovano loro o le loro famiglie.
In Italia la prostituzione ha un giro d’affari di circa 90 milioni di euro al mese e martirizza 100mila giovani donne vittime di tratta, prostituzione coatta e violenza. In Italia si stima che siano tra 75mila e 120mila le vittime della prostituzione. Il 65% è in strada, il 37% è minorenne, tra i 13 e i 17 anni. Provengono da Nigeria (36%), Romania (22%), Albania (10,5%), Bulgaria (9%), Moldavia (7%), le restanti da Ucraina, Cina e altri paesi dell’Est. I clienti sono 9 milioni, con un giro d’affari di 90 milioni di euro al mese.
La schiavitù moderna in agricoltura
Solo dalla schiavitù in agricoltura, secondo le stime Ilo, si generano 9 miliardi di dollari di proventi annui per gli sfruttatori.
Il settore agricolo, forestale e della pesca impiega globalmente circa 1,3 miliardi di lavoratori, ovvero la metà della forza lavoro del mondo. In questo numero, è stimabile che 3,5 milioni di persone lavorino in condizioni di schiavitù: in molti Paesi infatti il lavoro agricolo è poco regolato e la protezione legale dei lavoratori è molto debole o del tutto assente.
Quindi, dietro al cibo che ci arriva in tavola possono esserci le mani fiaccate di lavoratori stagionali che operano in condizioni fuori da ogni regola, da ogni dignità umana. Amnesty International ha appena diramato un rapporto secondo cui dietro le mega produzioni di olio di palma c’è lavoro minorile, perfino se etichettato come “sostenibile”.
Questo fenomeno non riguarda solo aree disagiate e Paesi poveri. Ciò che accade nello stato del Michigan, il più grande produttore di mirtilli degli Stati Uniti, è che bambini perlopiù immigrati dal Messico vengono sfruttati nei campi per raccogliere i frutti perché hanno mani piccole, più adatte a raccogliere le piccole bacche. Sempre in Usa ha fatto scalpore il documentario Food Chains, diretto da Sanjay Rawal e con la voce narrante di Forest Whitaker, che illustra la situazione dei braccianti agricoli in Florida. I raccoglitori di pomodori vivono una condizione di moderna schiavitù: devono lavorare su turni di dieci ore per una paga che si aggira intorno ai 40 dollari alla settimana. I ritmi veloci dei movimenti del film non sono un effetto speciale, bensì il vero modo di lavorare di queste persone che raccolgono 480 chili di pomodori al giorno e vivono “come animali in baracche anguste”, come dice uno dei lavoratori nel film.
In Italia è scoppiato nel 2010 il caso di Rosarno, in Calabria: migranti impiegati nella raccolta degli agrumi vivevano in acre condizioni di sfruttamento, costretti ad abitare in contesti degradanti, senza alcuna tutele igienica. Amnesty International Italia ha stilato una ricerca, “Lavoro sfruttato due anni dopo”, facendo il punto sulla situazione dei lavoratori migranti impiegati come braccianti e rivelando paghe al di sotto del salario minimo contrattato fra imprese e sindacati, pagamenti ritardati o mancati pagamenti e lunghi orari di lavoro. Andrea Segre ha appena presentato il film-documentario “Il Sangue Verde”: sette voci, sette storie raccontate dai braccianti africani che hanno vissuto gli scontri di Rosarno del 2010, contro lo sfruttamento e la discriminazione.
I bambini soldato
Un bambino di 10 anni può usare un AK-47 come un adulto. Non chiede paghe, si fa indottrinare e controllare più facilmente di un adulto, affronta il pericolo con maggior incoscienza, attraversa campi minati o si intrufola come una spia nei territori nemici.
Così, oggi sono più di 300.000 i minori di 18 anni attualmente impegnati in conflitti nel mondo. Centinaia di migliaia di bambini soldato hanno combattuto nell’ultimo decennio, alcuni negli eserciti governativi, altri nelle armate di opposizione. La maggioranza di questi hanno da 15 a 18 anni ma ci sono reclute anche di 10 anni.
Alcuni sono regolarmente reclutati negli eserciti dei loro Paesi, altri fanno parte di armate irregolari di opposizione ai governi. In entrambi i casi vivono una vita che non è da bambini. Anche le ragazze, sebbene in misura minore, sono reclutate e probabilmente costrette a stuprie a prevaricazioni sessuali. In Etiopia, per esempio, si stima che le donne e le ragazze formino un quarto delle forze d’opposizione armata.
Si dice che alcuni ragazzi aderiscono come volontari. In questo caso le cause possono essere diverse: per lo più c’è di mezzo la fame, il bisogno di protezione, il sostrato della vendetta. Nella Repubblica Democratica del Congo, per esempio, nel ’97 da 4.000 a 5.000 adolescenti aderirono all’invito di arruolarsi fatto attraverso la radio (erano per la maggior parte “ragazzi della strada”). Un altro motivo può essere dato da una certa cultura della violenza o dal desiderio di vendicare atrocità commesse contro i loro parenti o la loro comunità. Una ricerca condotta dall’ufficio dei Quaccheri di Ginevra mostra come la maggioranza dei ragazzi che va volontario nelle truppe di opposizione lo fa come risultato di una esperienza di violenze subite personalmente o viste infliggere ai propri familiari da parte delle truppe governative.
Il problema dei bambini soldato è più grave in Africa (il rapporto presentato nell’aprile scorso a Maputo parla di 120.000 soldati con meno di 18 anni) e in Asia.
Negli ultimi 10 anni è documentata la partecipazione a conflitti armati di bambini dai 10 ai 16 anni in 25 Paesi. Alcuni sono soldati a tutti gli effetti, altri sono usati come “portatori” di munizioni, vettovaglie, insomma con ruoli di supporto, anche se la loro vita non è meno dura o a rischio degli altri.
La schiavitù nella storia
Il lavoro forzato era diffuso nelle civiltà più antiche e a ogni latitudine. È emblematica la storia di Spartaco, gladiatore romano di origini tracie che nell’Impero del 73 a.C. guidò una rivolta di schiavi che tenne testa alle legioni per oltre un anno, prima di essere soffocata nel sangue: furono 6mila i ribelli crocifissi sulla strada tra Capua e Roma.
La civiltà cristiana, quella giudaica, greca, romana e persiana praticavano tutte la schiavitù. La schiavitù era consueta nel momento in cui è nato l’Islam e il diritto islamico, proibendo di rendere schiavi dei musulmani, ha favorito una tratta di schiavi non musulmani durata oltre mille anni.
Il cristianesimo, ampiamente diffuso tra gli schiavi dell’impero romano, nei suoi primi tre secoli di vita non ha controllato alcun governo, però non pare che abbia influito più di tanto sull’economia della schiavitù dato che poco è cambiato quando arrivò al potere. La schiavitù è esistita nella parte orientale dell’impero romano, a Bisanzio, fino alla presa dei turchi nel 1452.
La schiavitù era invece scomparsa nell’anno mille nell’occidente cristiano, sostituita però dal sistema feudale in cui le persone più modeste erano ridotte in stato di servitù. E appena è riapparsa una vera e propria domanda di schiavi, con la colonizzazione delle Americhe nel Cinquecento, gli europei hanno cominciato ad acquistare schiavi dall’Africa, come gli imperi islamici di Medio Oriente e India avevano continuato a fare.
Gli schiavisti musulmani catturavano generalmente più donne che uomini, poiché esisteva una maggiore domanda di schiave sessuali donne (concubine o simili) che di schiavi guerrieri uomini, mentre praticamente non esisteva domanda di lavoratori agricoli. Gli schiavisti europei sequestravano due o tre maschi africani per ogni donna, poiché quel che interessava loro era la forza lavoro per l’agricoltura commerciale.
La storia dei prodotti coloniali, zucchero, cacao, caffè, è resa amara dallo stridore delle catene di milioni di esseri umani deportati come schiavi dall’Africa alle Americhe. Tra il XVI e il XIX secolo, gli africani sbarcati oltre Atlantico furono circa 12 milioni. Le cose non andavano meglio in Oriente e nella stessa Africa, furono 17 milioni gli africani resi schiavi nell’Impero Ottomano e circa 14 milioni quelli da parte di altri africani.
Dal XVII secolo si passò alla colonizzazione vera e propria. La base economica del nuovo mondo divenne la piantagione schiavista, soprattutto quella di canna da zucchero: i due terzi degli schiavi deportati dall’Africa alle Americhe finì lì. Lo zucchero di canna veniva già prodotto nel Mediterraneo dagli arabi fin dal medioevo, con impiego di forza lavoro di matrice più o meno schiavistica. Ora le piantagioni vennero stabilite nelle isole dell’Atlantico e poi ai Caraibi. Insieme alla canna da zucchero si diffusero anche caffè e cacao, le piantagioni e la tratta negriera si espandevano man mano che questi nuovi prodotti diventavano di moda nei salotti d’Europa. Le principali nazioni negriere erano Inghilterra, Francia, Spagna, Portogallo, Olanda e Stati Uniti. Il sistema schiavista era la norma anche in Oriente, dove la coltivazione più diffusa era delle spezie. In Indonesia, olandesi e portoghesi si contendevano il controllo del commercio di noce moscata, cannella e chiodi di garofano. Turchi e arabi dominavano l’isola di Zanzibar, specializzata nei chiodi di garofano. Nel mondo musulmano gli schiavi erano impiegati anche nelle oasi del Sahara e del Medio Oriente, per la produzione di datteri e cereali.
L’abolizione della schiavitù occidentale
A fine Settecento prese vita un movimento d’opinione internazionale per la sua abolizione, il cui nucleo originario era tra i fedeli evangelici inglesi e nordamericani. Primo vero movimento politico di massa dell’epoca moderna, gli abolizionisti coinvolsero in modo trasversale la popolazione. Abili nella comunicazione, una loro efficace campagna fu il boicottaggio dello zucchero delle colonie al grido di “lo zucchero si fa col sangue”. La prima vittoria fu l’abolizione della tratta da parte della Gran Bretagna nel 1807. A dire il vero i primi ad abolirla erano stati i danesi nel 1792, ma i britannici decisero di estendere il divieto a tutto il mondo e di farlo rispettare, per cui misero in mare una flotta che dava la caccia ai vascelli negrieri. Gli schiavi liberati venivano portati a Free Town, capitale della Sierra Leone, fondata proprio per accogliere gli ex deportati.
Il cammino verso la libertà è stato pieno di paradossi. Per esempio, gli schiavi neri americani vennero sostituiti prima con forzati cinesi e indiani, poi con immigrati europei poveri, che magari si trovarono a vivere in condizioni ancora peggiori.
A fine Ottocento la schiavitù era ancora diffusa nei regni africani e arabi e persisteva anche nell’Impero Ottomano. Il suo sradicamento fu uno dei pretesti che le potenze europee utilizzarono per avviare la conquista coloniale di Africa e Medio Oriente.
Nell’Ottocento in America gli schiavi cominciarono a ribellarsi. Alcuni Stati settentrionali la proibirono, così molti cercarono di fuggire dove la schiavitù era stata ormai abolita. L’attrito tra gli Stati settentrionali e quelli meridionali innescò la Guerra di secessione americana. Con la vittoria degli Stati dell’Unione, contrari, la schiavitù venne abolita in tutti gli Stati Uniti d’America, con la Dichiarazione di emancipazione che venne pronunciata dal presidente Abraham Lincoln l’1 gennaio 1863. Il tredicesimo emendamento della Costituzione americana è entrato in vigore il 18 dicembre 1865. (Un anno dopo, sarà fondato il Ku-Klux Klan).
“Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma”. Sono le parole contenute nel quarto articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani, il documento sui diritti individuali che per la prima volta si rivolse a tutte le persone del mondo, firmato a Parigi il 10 dicembre 1948, la cui stesura avvenne sotto l’egida dalle Nazioni Unite. Esempi di cronaca continuano a dimostrarci che queste parole vengono ignorate quotidianamente in quasi tutto il mondo. E non sempre vogliamo saperlo.
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