La Sea Watch 3 è sbarcata a Lampedusa, arrestata la capitana Carola Rackete

La nave Sea Watch 3, dopo due settimane in alto mare e altre due notti trascorse a un miglio dal porto, è sbarcata a Lampedusa senza autorizzazione. Arrestata la comandante Carola Rackete, in salvo i 40 migranti a bordo.

La nave Sea Watch 3 è sbarcata la scorsa notte intorno all’1:50 nel porto di Lampedusa senza l’autorizzazione delle autorità portuali italiane. I 40 naufraghi migranti che erano a bordo sono stati fatti scendere dalla nave intorno alle 6 del mattino e trasferiti nel centro di accoglienza di contrada Imbricola, sull’isola, mentre il capitano della nave Carola Rackete, che aveva invocato lo stato di necessità per lo sbarco, è stata arrestata con l’accusa di resistenza o violenza contro nave da guerra: rischia da tre a dieci anni di carcere.

Leggi anche: Chi è Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3

Per tre giorni e due notti la Sea Watch 3 aveva stazione a un miglio dalla costa di Lampedusa, dopo essere entrata nelle acque territoriali italiane forzando il blocco imposto dalle autorità.

La decisione del capitano della nave, la tedesca Carole Rackete, aveva provocato la reazione del governo italiano che considerava quello della Sea Watch un equipaggio fuorilegge: l’accusa principale è rivolta all’Olanda, con il ministero degli Esteri che ha chiesto ufficialmente spiegazioni all’ambasciatore dei Paesi Bassi in Italia sul perché il governo di Amsterdam non sia intervenuto nella vicenda della nave, che batte appunto bandiera olandese. 


Il capitano della Sea Watch 3 aveva rotto gli indugi la mattina del 26 giugno, annunciando di aver deciso di entrare in porto a Lampedusa: “So cosa rischio ma i 42 naufraghi a bordo sono allo stremo. Li porto in salvo. In 14 giorni nessuna soluzione politica e giuridica è stata possibile, l’Europa ci ha abbandonati”. Nelle ultime ore un migrante era stato fatto sbarcare insieme al figlio per motivi di salute.

Un’odissea lunga due settimane

Due settimane fa la nave Sea Watch, appartenente all’omonima organizzazione non governativa tedesca, aveva recuperato nel Mediterraneo 42 migranti su un barchino in avaria, iniziando così la propria odissea in mare: per la prima volta la Guardia costiera libica aveva autorizzato lo sbarco in Libia, ma l’equipaggio della Sea Watch e i migranti aveva rifiutato di tornare in Africa dal momento che quello di Tripoli, anche secondo le Nazioni Unite, non è da considerarsi un porto sicuro

Lo stesso era successo con la Tunisia, che non dispone di una giurisdizione di tutela per i rifugiati. La nave aveva chiesto l’autorizzazione allo sbarco a Malta, ma le autorità della Valletta avevano rifiutato, così come poi quelle italiane per la richiesta di sbarco a Lampedusa. E così, da due settimana, la Sea Watch 3 navigava a vuoto sfiorando il confine tra le acque internazionali e quelle territoriali italiane, come si poteva notare anche nell’iconica immagine tratta dai radar delle capitanerie di porto che disegna, secondo l’italiana Mediterranea Saving Humans “un diagramma dell’odio che tende a infinito”.

Perché la Sea Watch 3 non è andata in un altro porto?

Perché le ong che operano in mare devono rispettare le leggi internazionali d e i trattati sul soccorso marittimo (come la Convenzione di Amburgo) che prevedono che gli sbarchi debbano avvenire in un “porto sicuro”, cioè in un territorio vicino, ma soprattutto dove il rispetto dei diritti umani fondamentali è garantito.

Ad esempio, la Libia non è considerata porto sicuro da Nazioni Unite e Unione europea per le violazioni dei diritti umani. La Tunisia non ha una legislazione completa sul diritto d’asilo, mentre Malta non ha ratificato due convenzioni sul soccorso marittimo, quindi entrambe non sono sicure. Mentre Germania e Paesi Bassi non sono chiaramente vicine in quanto si affacciano sul mare del Nord e non sul Mediterraneo.  

L’appello dei migranti a bordo e il no della Corte europea

Dalla barca ieri era arrivato un messaggio di aiuto commovente da parte dei migranti a bordo della Sea Watch: “Siamo tutti stanchi, stremati, esausti: pensate a una persona che è appena uscita dalla prigione e fuggita dalla Libia e ora si ritrova qua seduta, e se non è seduta è sdraiata. Immaginatevi come possa sentirsi questa persona- dice uno di loro in un video pubblicato da Forum Lampedusa Sociale – Inevitabilmente rischia di sentirsi male. Non ce la facciamo, siamo come in prigione, ci manca tutto, non possiamo fare niente, non possiamo muoverci né camminare perché la barca è piccola e noi siamo tanti, non c’è spazio. L’Italia non ci permette di approdare: veramente, vi chiediamo aiuto, chiediamo l’aiuto dell’umanità, chiediamo l’aiuto delle persone a terra. Qui non è facile, il caldo ci fa soffrire, aiutateci”.

La sentenza Cedu
La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

L’appello non era stato raccolto né dalle autorità italiane, né dalla Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che aveva respinto il ricorso della Sea Watch presentato per chiedere un provvedimento provvisorio di sbarco per permettere ai naufraghi di presentare richiesta di protezione internazionale: la Corte di Strasburgo aveva risposto che non c’erano gli estremi per lo sbarco, perché le persone a bordo “non sono esposte a rischio reale di danni irreparabili” ma che il governo italiano doveva “comunque continuare a  fornire l’assistenza necessaria alle persone vulnerabili a causa della loro età e delle condizioni di salute”.

In tutta Italia si sono tenuti in questi giorni sit-in di solidarietà nei confronti della Sea Watch e dei 42 migranti a bordo: a Roma, richiamati all’appello da Mediterranea Saving Humans, la rete della nave Mare Jonio tuttora sequestrata dalle autorità italiane, qualche centinaio di persone si era riunita a piazza San Pietro.

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