Al mare ne trovava talmente tanta da decidere di farne un museo, degli orrori. L’idea di una guida naturalistica. Lo scopo? Riflettere sulle nostre colpe.
Sommersi dalla plastica, ecco gli effetti del blocco cinese
Una bomba ecologica pronta ad esplodere. Il blocco cinese all’importazione dei rifiuti, che fino a gennaio 2018 assorbiva il 72,4 dei rifiuti plastici esportati dai paesi di tutto il mondo, potrebbe avere effetti peggiori del previsto: entro il 2030 rischiamo di essere sommersi dalla plastica e di non sapere come gestirla. Nel frattempo nascono nuove
Una bomba ecologica pronta ad esplodere. Il blocco cinese all’importazione dei rifiuti, che fino a gennaio 2018 assorbiva il 72,4 dei rifiuti plastici esportati dai paesi di tutto il mondo, potrebbe avere effetti peggiori del previsto: entro il 2030 rischiamo di essere sommersi dalla plastica e di non sapere come gestirla. Nel frattempo nascono nuove rotte, specialmente nel Sud Est asiatico, ma Malesia, Thailandia, Vietnam e Indonesia non sono ancora in grado di gestire le milioni di tonnellate esportate ogni anno dai paesi occidentali, Italia compresa.
Leggi anche: Stefano Vignaroli. Gli incendi negli impianti di gestione dei rifiuti fotografano la crisi del sistema
Quanta plastica esportavamo prima del blocco cinese
Secondo un recente rapporto pubblicato da Greenpeace “Le rotte globali, e italiane, dei rifiuti in plastica”, che raccoglie i dati disponibili sui flussi di rifiuti da e per l’Europa, dal 2016 ai primi mesi del 2018 – anno del blocco cinese – le esportazioni si sono ridotte del 46 per cento. Passando da oltre 12 milioni di tonnellate nel 2016 a poco più di 5 milioni nel 2018. “I principali esportatori risultano, nell’ordine, Stati Uniti (16,5 per cento delle esportazioni totali), Giappone (15,3 per cento), Germania (15,6 per cento), Regno Unito (9,4 per cento) e Belgio (6,9 per cento)”, si legge nel rapporto. L’Italia si trova all’undicesimo posto con un contributo pari al 2,25 per cento di tutti i rifiuti in plastica esportati. Ma dove va a finire tutta questa plastica? I primi 5 paesi importatori sono la Malesia (15,7 per cento delle importazioni totali), la Thailandia (8,1 per cento), il Vietnam (7,6 per cento), Hong Kong (6,8 per cento) e gli Stati Uniti (6,1 per cento).
Se invece guardiamo ai numeri italiani, il rapporto dell’associazione ambientalista mostra come solo nel 2018, il nostro paese abbia esportato poco meno di 200 mila tonnellate di scarti di plastica, principalmente in Austria, Germania e Spagna. Invece per quanto riguarda i paesi extra europei, la plastica che fuori esce dal sistema di raccolta e riciclo o che semplicemente non viene intercettata va a finire in “Malesia (le cui importazioni nel 2018 sono aumentate del 195,4 per cento rispetto al 2017), Turchia (+191,5 per cento rispetto al 2017), Vietnam (in leggera decrescita rispetto al 2017 ma aumentato del 153 per cento rispetto al 2016), Thailandia (+770 per cento), Yemen e Stati Uniti”.
Quale sarà l’effetto del blocco cinese
La produzione di prodotti plastici è in costante crescita, fin dagli anni della sua nascita. Ad essere sotto la lente di ingrandimento sono gli imballaggi di plastica monouso, che entrano nel flusso dei rifiuti immediatamente dopo l’uso, contribuendo a un totale cumulativo di 6,3 miliardi di tonnellate di rifiuti plastici generati in tutto il mondo. Ad oggi, come riporta lo studio “The Chinese import ban and its impact on global plastic waste trade”, pubblicato su Science Advances, “solo il 9 per cento dei rifiuti di plastica è stato riciclato a livello globale, con la stragrande maggioranza dei rifiuti plastici globali messi in discarica o che hanno finito per contaminare l’ambiente (80 per cento)”. Mentre si stima siano tra le 4 e le 12 milioni di tonnellate quelli che arrivano agli oceani ogni anno. Secondo le stime dello studio rischiamo di trovarci con 110 milioni di tonnellate (una quantità centinaia di volte più grande di quella inviata in Cina) entro il 2030.
Le richieste delle imprese
Lo scorso 18 aprile Assoambiente, l’asssociazione di Fise (Federazione imprese di servizi) che rappresenta a livello nazionale e comunitario le imprese private che gestiscono servizi ambientali, rilasciando il rapporto “Per una Strategia Nazionale dei rifiuti” sottolineava che “per cogliere la sfida europea della circular economy (65 per cento di riciclo effettivo e 10 per cento in discarica al 2035 per i rifiuti urbani) occorrerà aumentare sensibilmente la raccolta differenziata (fino all’80 per cento, considerato il tasso di resa rispetto ai rifiuti urbani intercettati) e la capacità di riciclo (+4 milioni di tonnellate) del nostro paese, limitando il tasso di conferimento in discarica e innalzando al 25 per cento la percentuale di valorizzazione energetica dei rifiuti al fine di chiudere il ciclo”.
Numeri importanti, per ora non alla nostra portata. Secondo l’associazione mancherebbero infatti 20 impianti per le principali filiere del riciclo, 22 impianti di digestione anaerobica per il riciclo della frazione umida, 24 impianti di termovalorizzazione, 53 impianti di discarica per gestire i flussi dei rifiuti urbani e speciali. L’intera filiera avrebbe bisogno di 10 miliardi di euro di investimenti in impianti di riciclo, recupero e smaltimento.
La cronaca: aumentano i roghi negli impianti di stoccaggio
Secondo Greenpeace da quando il governo di Pechino ha imposto il diktat all’import, si sta inoltre diffondendo un recente fenomeno tutto europeo. “Si tratta di un fenomeno di export via terra verso altri paesi europei, magari Stati entrati da poco in Unione, dove i controlli sono meno accurati e si privilegia l’interesse economico al rispetto della legalità, dell’ambiente e della salute umana”, spiega Roberto Pennisi, sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, per cui si occupa di redigere nel rapporto annuale il capitolo dedicato alle ecomafie e ai crimini ambientali.
Non solo. Da anni stiamo assistendo nel nostro paese ad un crescente aumento degli incendi a siti di trattamento e stoccaggio dei rifiuti. Secondo la penultima Commissione Ecomafie a fine 2017 se ne contavano 261, di cui il 47,5 per cento al Nord. Mentre nei primi sei mesi del 2018 avevano già toccato quota 300. “Questi roghi, che non puzzano solo di bruciato, compromettono il corretto ciclo dei rifiuti – riduzione, raccolta differenziata, riuso e riciclo. E mettono a rischio la salute di cittadini e ambiente perché liberano diossina. Sarebbe importante avere uno strumento in più per contribuire a fare chiarezza su cause e responsabilità di questi fenomeni e contrastare gli echi criminali”, scriveva Rossella Muroni su La Stampa. Per il parlamentare Stefano Vignaroli, intervistato da LifeGate si tratterebbe “di una crisi strutturale del sistema di gestione dei rifiuti, di cui gli incendi rappresentano la manifestazione più evidente insieme alla crescente saturazione degli impianti di smaltimento dell’indifferenziato”.
A dimostrazione che forse il rifiuto non trattato è quello più redditizio per un certo tipo di criminalità. E che il fuoco, alla fine, risolve tutto.
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