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In pochi anni abbiamo perso una superficie di foreste incontaminate pari a tre volte quella dell’Italia. I boschi nel mondo hanno bisogno di aiuto.
In soli tredici anni, tra il 2000 e il 2013, la superficie delle foreste considerate ancora incontaminate è diminuita del 7,2 per cento a livello mondiale. Ciò significa una perdita pari a quasi un milione di chilometri quadrati: il triplo dell’estensione territoriale dell’Italia intera. Basterebbe questo dato per comprendere in che modo le attività umane, l’incuria e la mancanza di coscienza ecologica stiano privando l’umanità di un autentico tesoro di biodiversità, nonché di un elemento fondamentale per la salvaguardia dell’equilibrio climatico globale.
L’allarme è arrivato nello scorso mese di gennaio, quando uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Science Advance ha sottolineato come l’erosione delle superfici forestali incontaminate stia addirittura accelerando: la quantità di boschi perduti nel triennio 2011-2013 risulta tripla rispetto a quella registrata dieci anni prima. Secondo gli autori dell’analisi, intitolata “Intact Forest Landscapes”, le zone che non presentano segni di attività antropiche sono dunque sempre meno estese.
Ma cosa si intende per aree “incontaminate”? Va detto che quella presa in considerazione dai ricercatori è una definizione più ampia rispetto, ad esempio, a quella utilizzata dalla Fao nei propri rapporti sullo stato delle foreste. Sulla base di tale interpretazione “estesa”, i Paesi che risultano ospitare la maggiore quantità di aree boschive ancora integre sono il Canada (con tre milioni di chilometri quadrati), la Russia (2,7) e il Brasile (2,4). Nelle tre nazioni, le perdite registrate nel giro di pochi anni sono state attorno al cinque per cento.
Aggregando i dati a livello dei continenti, emerge che l’area più colpita dall’erosione è quella dell’America Latina (oltre 300mila chilometri quadrati persi tra il 2000 ed il 2013), seguita dall’Africa (oltre 100mila chilometri quadrati). Ma il caso più eclatante è senza dubbio quello relativo al Paraguay, che ha visto scomparire nel giro di pochi anni il 79 per cento delle proprie foreste incontaminate. Matthew Hansen, docente di scienze geografiche presso l’università del Maryland, negli Stati uniti, e autore della ricerca assieme ad un gruppo di esperti di Greenpeace, ha spiegato: “Purtroppo non possiamo avere dubbi sui risultati: Le osservazioni satellitari sono chiarissime”.
Il Brasile ha affermato di voler correre ai ripari, ma in molti casi le azioni concrete scarseggiano: non a caso, solo tra le estati del 2015 e del 2016, secondo lo Space Research Institute brasiliano, sono stati distrutti nella nazione sudamericana quasi ottomila chilometri quadrati di foresta. Rasi al suolo da taglialegna, agricoltori e allevatori. Solo nell’ultimo anno, il tasso di deforestazione è cresciuto di quasi il 30 per cento. Un fenomeno diffuso anche altrove e che non è solo da attribuire alle scelte dei governi: “Ad esempio – prosegue Hansen – affinché l’olio di palma cessi di distruggere le foreste in Indonesia, occorre trasformare l’intera economia mondiale. Basti pensare che esso è presente in quasi tutti i prodotti commercializzati negli Stati Uniti”.
La principale causa della deforestazione, infatti, è proprio l’agricoltura. A confermarlo è l’ultimo Rapporto sullo stato delle foreste nel mondo redatto dalla Fao, secondo il quale tra il 1990 e il 2015 la superficie boschiva totale nel mondo è diminuita di 129 milioni di ettari (portando il totale a livello mondiale a meno di 4 miliardi di ettari). La nota positiva è legata al fatto che, mentre negli anni Novanta si perdevano in media 7,3 milioni di ettari all’anno, nel periodo 2010-2015 il dato è sceso a 3,3 milioni. Ciò nonostante, secondo l’agenzia delle Nazioni Unite i valori restano “estremamente preoccupanti”. In particolare nelle regioni tropicali e nei paesi più poveri della Terra.
Proprio ai tropici, infatti, tra il 2000 e il 2010 il quantitativo di foreste perse è stato quasi identico all’incremento registrato nella superficie di campi coltivati. Ciò perché l’idea diffusa è che per fronteggiare la crescita della domanda di cibo, anche in previsione dell’aumento demografico che si verificherà nei prossimi decenni a livello mondiale, sia inevitabile aumentare le superfici agricole, erodendo quelle boschive.
Un approccio contestato con fermezza da Dominique Reeb, del dipartimento foreste della Fao, che al quotidiano francese Le Monde ha spiegato: “La sicurezza alimentare è raggiungibile aumentando i rendimenti con pratiche rispettose degli ecosistemi e integrando le risorse boschive”. Sono proprio gli alberi, infatti, a migliorare la produttività agricola, grazie alla loro capacità di mantenere il suolo umido, di fornire ombra e protezione alle colture e di creare un habitat adatto agli impollinatori.
Senza dimenticare che le aree forestali sono in grado di mitigare i cambiamenti climatici, limitando così gli impatti sulla produzione di cibo. Al contrario, soprattutto in Asia, si è agito privilegiando i terreni coltivati: non a caso è in questo continente che è presente la proporzione più elevata di aree agricole (più della metà della superficie totale) e quella più bassa di foreste ( solo il 19 per cento).
Sempre in termini geografici, la Fao indica anche quali sono i paesi che – nel periodo 2000-2010 – hanno guadagnato porzioni di foreste sui propri territori e quelli che invece ne hanno perdute. Nel primo gruppo figurano, tra gli altri, Stati Uniti, Cile, Spagna, Italia, Belgio, Regno Unito e Cina. “La situazione delle foreste nel mondo – ha osservato José Graziano da Silva, direttore generale della Fao – mostra come alcuni stati siano riusciti a migliorare la produttività agricola e il grado di sicurezza alimentare delle loro popolazioni, registrando al contempo un aumento dell’estensione delle foreste. Oggi la sfida è quella di saper incoraggiare queste tendenze positive soprattutto nei paesi più poveri, dove la malnutrizione è ancora diffusa e la superficie forestale è in diminuzione”. Dati negativi, al contrario, sono stati registrati – tra gli altri – in Brasile, Argentina, Perù, Portogallo, Australia e in numerose nazioni africane e del sud-est asiatico. Il risultato complessivo è che ad oggi, su scala planetaria, le colture coprono il 37,7 per cento delle terre, mentre le foreste arrivano solamente al 30,7 per cento.
Una buona notizia, però, arriva dalle foreste boreali e da quelle temperate: in queste aree la superficie boschiva risulta aumentata rispetto a quella agricola. Ciò si spiega soprattutto grazie all’espansione naturale delle foreste sulle terre agricole abbandonate. Un aumento di 26 milioni di ettari è stato registrato così nella macro-area che comprende Bielorussia, Kazakistan e Russia, come confermato da uno studio pubblicato nel 2011 dal Pnas. Ma il fenomeno è stato osservato anche in Italia: un’analisi effettuata dal Corpo forestale dello stato nel 2016 indica come la superficie forestale nazionale sia cresciuta del 5,8 per cento rispetto al 2005, arrivando a sfiorare gli undici milioni di ettari. Di tale incremento, però una piccola parte è dovuta ad interventi di riforestazione: il resto è il risultato dell’espansione naturale dei boschi, conseguenza proprio del progressivo abbandono delle attività agro-silvo-pastorali.
Proprio in Italia, nello scorso mese di agosto, è stata avviata la consultazione pubblica per l’elaborazione del Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici. In materia di foreste, esso propone – tra le altre – una serie di azioni: la protezione della biodiversità e l’aumento della resilienza dei boschi, la lotta agli incendi, la riduzione del dissesto idrogeologico, la tutela delle aree montane, nonché la ricerca di specie forestali più adatte alle mutazioni del clima.
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