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Sud Sudan, la dignità delle donne nel fotoreportage Only a woman
Nonostante fame, povertà e violenza le donne del Sud Sudan portano avanti la propria vita con dignità. Only a woman è il reportage che mostra tutta la loro forza.
Nel dicembre del 2013 il presidente del Sud Sudan Salva Kiir ha accusato l’ex vicepresidente Riek Machar di aver tentato un colpo di stato. In breve, il conflitto si è trasformato da politico a etnico e ha visto contrapposte le tribù Dinka e Nuer. A seguito di questo conflitto, gli sfollati sono oltre 2,3 milioni (di cui 1,65 milioni all’interno del paese) e arrivano soprattutto dagli stati del nord, come l’Alto Nilo e lo Unity, dove sono presenti i più grandi giacimenti di petrolio del paese.
Lo stupro come arma di guerra
Un rapporto delle Nazioni Unite del 12 marzo 2016 ha accusato il governo di aver permesso ai militari di saccheggiare, uccidere civili e stuprare le donne come ricompensa del loro lavoro. Dall’inizio del conflitto sono stati uccisi oltre 50mila civili e sono stati registrati più di 1.300 casi di stupro. Perché ora, in Sud Sudan, lo stupro è un’arma di guerra.
A ridosso dei festeggiamenti del quinto anniversario dell’indipendenza del Sud Sudan, a luglio 2016, dopo il fragile accordo di pace firmato nel 2015, sono scoppiati nuovi scontri nella capitale Giuba che hanno causato più di 300 morti e una nuova ondata di violenza.
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In Sud Sudan una donna su 30 rischia la morte per cause legate alla gravidanza e al parto, per la difficoltà nel raggiungere le poche strutture sanitarie e un bambino su 10 muore prima di arrivare ai 5 anni a causa della malnutrizione o di malattie che sarebbero facilmente curabili se ci fossero adeguate strutture sanitarie.
La città di Mingkaman
Prima del conflitto, la città di Mingkaman non esisteva, ora ci vivono oltre 150mila profughi che sono riusciti a trovare in quel luogo un po’ di pace e la possibilità di sopravvivere, di avere cibo e assistenza grazie alla presenza del Programma alimentare mondiale (World food programme, Wfp) e di alcune ong.
È un paese in cui il disturbo post-traumatico, diffusissimo dopo decenni di conflitto, non viene riconosciuto e curato, in cui numerose gravidanze mettono a rischio le giovani donne e i bambini vivono per strada, da soli, con brandelli di vestiti o a volte senza nulla addosso, a piedi nudi sulla terra rossa bollente. Sì, perché a Mingkaman si raggiungono anche i 56 gradi, senza acqua corrente, al riparo dal sole sotto una tettoia di lamiera che scricchiolando fa sperare in qualche goccia di pioggia.
Il Wfp ha consegnato a ogni famiglia una tessera e una volta al mese si mettono in fila prestissimo, solo donne e bambini ovviamente, perché queste sono ancora solo questioni di donne, come la gestione della gravidanza e la cura dei bambini. Se ne incontrano a centinaia con i loro pancioni, restano in attesa per ore, ordinatamente, sedute per terra o su vecchi barattoli di latte in polvere, poi mettono sulla testa grandi sacchi di sorgo e si avviano lungo l’unica strada di Mingkaman.
Sono donne che continuano a vivere con tutta la forza del mondo
Nel reparto maternità dell’ospedale di Bor c’è una stanza, un lettino singolo con sopra una piccola zanzariera che protegge un bimbo. Sua mamma l’ha abbandonato dopo il parto, davanti al vicino mercato. È il frutto di una violenza sessuale. Prima di lui quella donna ha avuto altri quattro figli concepiti nello stesso modo, ha perso la ragione e li ha uccisi dopo il parto. Perché per queste donne che subiscono anni di violenze, un figlio non è quello che dovrebbe essere. È solo il ricordo dell’orrore. Sono donne che portano sulle spalle un peso immenso e continuano a vivere con tutta la forza del mondo.
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