
L’attacco israeliano è avvenuto il 23 marzo ma è venuto allo scoperto solo nei giorni scorsi. Secondo fonti locali è stata un’esecuzione.
Il califfo dello Stato Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi, si è ucciso in Siria durante l’attacco dell’esercito americano. “È morto come un cane”, ha commentato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ha dato la notizia.
“Al-Baghdadi è morto. Era il fondatore e leader dell’Isis, l’organizzazione terroristica più spietata e violenta del mondo. Gli Stati Uniti l’hanno cercato per anni. Nel corso del mio mandato, catturarlo ha rappresentato la priorità in termini di sicurezza nazionale. È morto dopo essere fuggito in un vicolo cieco, frignando, piangendo e urlando per tutto il tragitto. Condotto dai cani alla fine del tunnel, si è fatto saltare in aria uccidendo tre dei suoi figli che erano con lui. È morto come un cane, come un codardo”.
Con queste parole il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato la morte di Abu Bakr al-Baghdadi, califfo dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (Isis). Come riferito alla Cia dai guerriglieri curdi e dall’intelligence irachena, il terrorista si era nascosto in una casa dotata di una rete di gallerie sotterranee a Barisha, uno sperduto villaggio di mille abitanti nella valle delle cosiddette “città fantasma”, in Siria nordoccidentale. Nella notte fra il 26 e il 27 ottobre gli elicotteri e le truppe statunitensi – dopo aver allertato russi, curdi e siriani – hanno attaccato il nascondiglio di al-Baghdadi. Che, messo alla strette, si è fatto esplodere. Il test del dna lo ha confermato. Oltre ai figli, hanno perso la vita due delle sue mogli e il portavoce Abul-Hasan al-Muhajir. Altri undici bambini sono stati tratti in salvo dall’esercito americano, anch’esso illeso.
Nato nel 1971 in Iraq e cresciuto in una famiglia musulmana sunnita molto religiosa, Abu Bakr al-Baghdadi si era trasformato da “una persona timida che amava il calcio” in un violento rivoltoso quando gli Stati Uniti, nel 2003, avevano invaso il suo paese. Nel 2010 era divenuto leader dell’Isis, dopo di che non c’era voluto molto tempo perché diventasse anche il terrorista più ricercato al mondo.
Tuttavia, la sua perdita non rappresenta la fine dello Stato Islamico. “Morto un califfo, se ne fa un altro”, esordisce Lucio Caracciolo, direttore della rivista italiana di geopolitica Limes, ai microfoni di Radio Capital. “Gli americani fanno sempre la guerra a una persona, più che ad un popolo: pensiamo a Hitler, Milošević, Saddam Hussein. In quest’ottica, uccidere il capo del nemico rappresenta un grande successo in termini di propaganda. È un’arma che Trump sta utilizzando in una fase di difficoltà – è stata avviata una procedura di impeachment nei suoi confronti ad un anno dalle elezioni del 2020 – ma, purtroppo, è un’arma di propaganda anche per l’Isis, che ha un martire in più e certamente vorrà vendicarlo”.
Prima di ridicolizzare la vittima parlandone in maniera tanto aberrante, forse Trump dovrebbe prepararsi a quanto la sua scomparsa comporterà.
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