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“Un carnevale a Nairobi? Penseranno che siamo matti”
Una conversazione con Jane Wanjiru e Mary Osinde, educatrici di strada coinvolte nel progetto Carnival! Nairobi, organizzato da Cherimus, Koinonia Community e Amani.
In un pomeriggio di pausa tra un laboratorio a Ngong e un altro a Kawangware, sono andato insieme a Ibrahim Nehme, scrittore in residenza del progetto Darajart e Elisa Simoncelli, filmmaker e volontaria di Amani a Mother House, una delle case di prima accoglienza per bambini che vivono in strada, gestite da Koinonia Community e Amani. Qui abbiamo incontrato le educatrici Jane Wanjiru e Mary Osinde (d’ora in poi JW e MO), che supportano Cherimus nei laboratori artistici di Carnival! Nairobi. Ci hanno parlato del loro rapporto con le “basi”, le comunità di strada dove vivono i bambini e i ragazzi coinvolti nel progetto cominciato a febbraio e che debutterà il 14 aprile con una parata per le strade del quartiere di Riruta-Satellite.
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Mary, qual è il tuo punto di vista rispetto ai laboratori che stiamo facendo con i ragazzi che vivono in strada?
MO: Questo progetto è molto positivo perché dà la possibilità ai ragazzi di strada di essere creativi, di condividere le loro idee e addirittura… ridere! Abbiamo visto alcuni dei ragazzi aiutarsi l’un l’altro nel disegnare ed esprimersi. Posso dire che i disegni ci sono molto utili perché ci consentono di immaginare cosa questi ragazzi vorrebbero essere in futuro. Questo potrebbe aiutarci soprattutto nel processo di recupero di alcuni bambini. Una parte di questo lavoro è utile in vista del 12 aprile, la Giornata internazionale dei bambini di strada visto che alcune organizzazioni potrebbero prendere spunto da Carnival! Nairobi e magari replicarlo. È un bene che avvenga uno scambio di buone pratiche tra organizzazioni e istituzioni.
Cosa significa essere un’educatrice di strada?
MO: Quando andiamo in strada incontriamo questi giovani ragazzi. Creiamo un legame per un periodo di tre mesi, conoscono i nostri nomi, risaliamo alle case da dove sono scappati così da poter conoscere le loro famiglie prima che entrino nei nostri centri. Nel frattempo stiamo con loro, facciamo attività, colazione e pranzo. Condividono i loro pensieri e si aprono con noi, a volte ci spiegano perché hanno lasciato casa e sono finiti in strada.
JW: Andiamo soprattutto nella periferia di Nairobi. Per strada parliamo con i ragazzi e cerchiamo di contattare le famiglie. Cerchiamo di coinvolgerli in molte attività: giochiamo a calcio, normalmente facciamo lo stesso con le ragazze. Organizziamo anche un torneo per ragazzi di strada in cui coinvolgiamo le diverse basi, per unirle. Le basi non sono uguali tra loro, non fanno le stesse cose, a volte ci sono dinamiche diverse. Con questo torneo le basi si conoscono e riconoscono e quindi riescono ad aiutarsi l’una con l’altra. L’anno scorso c’era un gruppo di ragazze a cui piaceva il calcio, non vedevano l’ora di giocare. Hanno anche avuto un allenatore: presso la base c’è un campo dove poter giocare. Per loro è stato entusiasmante! È stato bello coinvolgere tutte quelle basi perché non erano mai state in contatto tra loro per così tanto tempo. Ora quando qualcuno cambia base, per esempio da Ngong a Kawangware, ci si conosce già ed è come se la famiglia di strada fosse una.
Come scegliete i ragazzi che entrano nei centri di recupero?
MO: La selezione avviene per ragazzi dai 6 ai 15 anni: nelle varie basi ci sono alcuni ragazzi più giovani e il criterio è unicamente l’età. Prima di iniziare il recupero individuiamo le loro famiglie, quando non ci riusciamo ci rivolgiamo ai servizi sociali.
Cosa ti aspetti da questo carnevale?
MO: Cerco di immaginare come trasporteranno questi grandi carri e come indosseranno queste maschere, perché in Kenya nessuno ha mai visto niente di simile. La gente dirà: “Hey, da cosa sono vestite queste persone?”, conoscendo i keniani penseranno che siamo matti, ma noi sappiamo quello che facciamo.
Con quante basi lavora Koinonia Community?
JW: Sono tante, ma posso nominarne alcune: abbiamo Kawangware e Sokomjinga, Strong boys, abbiamo Vancouver e Ngong. In città ce ne sono tante: lavoriamo più che altro con Central park, CBD, Grogon, Mlango, e anche Eastleigh, Mtindwa, Muturwa, Gikomba.
Come vengono scelti i nomi delle basi?
JW: Credo che scelgano i loro nomi basandosi su quello a cui sentono di appartenere, c’è un senso di attaccamento a qualcosa: se si identificano con l’Arsenal (la squadra di calcio inglese, ndr) probabilmente si daranno quel nome. Il più delle volte si identificano con qualcosa in cui credono o che amano. I nomi si scelgono parlando, magari il nome salta fuori e qualcuno dice: “Potremmo chiamarci così” e così via. Così come gli Strong boys che si sentono forti, anche se in realtà potrebbero sembrare deboli (ride, ndr).
Nelle basi la maggior parte dei ragazzi sono maschi, è difficile per te fare questo lavoro essendo una donna?
JW: Quando vado in una base, all’inizio non mi siedo con loro. Mi limito a parlare e a dire: “Sono una sorella per te”, così possiamo parlare di quel che gli succede. Quando vedono questo approccio si sentono bene al punto che se hai un problema cercano di aiutarti perché ti conoscono bene. Quando ci sono attività puoi unirti e questo a loro piace. Ci dicono: “Anche tu puoi fare questo con noi, vieni! Andiamo avanti!”, così ti senti al sicuro.
Nella base di Mtindwa ci sono alcune ragazze, insieme ai loro bambini. Perché quando arriviamo la mattina troviamo solo ragazzi?
JW: Penso che il più delle volte, soprattutto nelle aree urbane, semplicemente la mattina le ragazze dormano da qualche parte. Ci sono, è solo che vanno altrove nella stessa zona, si nascondono e riposano.
Quali sono le vostre aspettative sul carnevale?
JW: Abbiamo molte attività, ma questa è nuova. Alcuni dei ragazzi ci chiedono: “Perché ci chiedete di disegnare?”. Quando partecipano disegnano cose interessanti, molti di loro hanno talento, si vede che non hanno mai avuto l’opportunità di tirare fuori certe cose. Sono ansiosa di vedere il carnevale, so che sarà coinvolgente! È entusiasmante, per noi è la prima volta.
Durante una delle attività abbiamo costruito le bandiere, com’è andata secondo voi?
JW: All’inizio abbiamo disegnato un tetto di lamiera – eravamo io e Victor, che ha circa 13 anni – poi dovevamo tagliare le forme dai tessuti e ho pensato: “Chissà come funziona questa cosa…”, ma poi ce l’abbiamo fatta, abbiamo tagliato il tessuto a zig-zag e ha funzionato bene.
Victor era il ragazzo più felice del mondo in quel momento.
JW: Sì, e non vede l’ora che sia domani!
Come sono organizzate le basi? Abbiamo capito che tutte hanno leader, qualcuno a cui il gruppo può fare riferimento. Come funziona questo tipo di società, ci sono delle regole?
JW: Credo che questi giovani, ragazze e ragazzi, vivano come in una famiglia. In un sistema famigliare c’è un capo, come un padre o una madre. E i ragazzi seguono questa figura: se il leader dirà loro di fare qualcosa, tutti lo seguiranno. Per esempio, i ragazzi nelle strade spesso sono soggetti a dipendenze, e a volte quando parliamo con loro gli viene detto di mettere via la droga, tutti lo fanno perché ascoltano. Questa è una regola che seguono. Un’altra è che devono esserci l’uno per l’altro: se hai qualcosa lo devi condividere con gli altri; se uno di loro viene picchiato, gli altri lotteranno per difenderlo. Questa è la cosa più bella: vivono come una famiglia.
Il leader è il più grande o ci sono altri criteri?
JW: Nella maggior parte dei casi è il più grande, ma un altro elemento di leadership è il tempo di permanenza nella base. Ci sono persone che restano una settimana e poi se ne vanno, altre ci restano un mese, altre ancora restano nella stessa base per anni.
Cercate di costruire una relazione con il leader per avere accesso alla base?
MO: Sì, i leader sono coloro che posso aiutarti ad accedere alla base. Sono anche quelli che possono proteggerti se succede qualcosa.
Qual è stata la sfida più grande che avete dovuto affrontare?
MO: Quando ho cominciato è stata una grande sfida perché sono una donna. Molte persone in strada fanno uso di droghe e all’inizio si ha un po’ paura di loro, ma dopo due o tre giorni erano già molto amichevoli. È fondamentale presentarsi perché ci sono persone che li avvicinano, li picchiano, li schiaffeggiano, anche la polizia. Ma se sanno chi sei, sei al sicuro.
Da quando avete cominciato com’è cambiata la situazione? Ci sono meno ragazzi in strada?
MO: Sì, parlo per questo lato della città (Dagoretti, Kawangware, ndr), i ragazzi stanno diminuendo. Ma andando più in centro sono ancora tanti perché nel momento in cui ne recuperi uno, ne arrivano altri. Ora anche il governo sta cominciando a occuparsi della loro protezione. Forse da qui a cinque anni avremo meno bambini in strada.
Ci sono bambini che non hanno famiglia? Se sì, come funziona il lavoro con loro?
MO: Ci sono alcuni bambini che non hanno i genitori, ma anche in quel caso ci si affida a un parente. Nessuno nasce senza un padre e una madre, facciamo abitualmente il tracciamento della famiglia e anche se è molto lontana, la raggiungiamo.
Durante i laboratori artistici ci siamo sentiti i benvenuti, abbiamo ricevuto rispetto e affetto. Ma qual è la percezione da parte delle altre persone che non vivono in strada? Sappiamo che esistono forme di discriminazione nei loro confronti. Una volta c’è stata una ragazza del quartiere che li ha presi in giro, li ha apostrofati come “animali”. Pensi che il carnevale possa mettere in discussione questa percezione?
MO: La gente considera questi ragazzi dei ladri, teme che possano farle del male. Soprattutto le persone appartenenti alle classi sociali più alte li giudicano per come si vestono, perché sono sporchi, si domandano cosa mangiano. Aspettiamo il carnevale perché in quel momento noi saremo con loro e la speranza è che la gente possa guardarli con occhi diversi. Molte volte hanno una percezione negativa anche nei nostri confronti: si chiedono “Come puoi fare questo lavoro?”. Il carnevale è uno strumento per far comunicare la comunità con i ragazzi.
Concludiamo questa conversazione ricordando un disegno fatto a Kawangware. Era di Mavo, ha disegnato un bellissimo negozio di ferramenta. Su un lato c’era un paesaggio, un’alba. O un tramonto forse. A fianco aveva scritto “Terra dell’orrore”. Così gli abbiamo chiesto il perché di quella frase e ha risposto che definiscono la polizia “orrore” perché a volte i poliziotti arrivano e li picchiano senza motivo, come se non avessero alcun valore. Come possono il carnevale e le altre iniziative come la Giornata internazionale dei bambini di strada aiutare sul piano politico?
JW: Penso che questo carnevale, questa festa, in cui la gente ci vedrà tutti insieme farà sorgere domande e penso che la nostra risposta sarà far capire che queste persone sono importanti, sono esseri umani come tutti ed è solo a causa di alcuni problemi che sono finiti in strada. Credo che la maggior parte delle persone pensi che scappino di casa e basta, mentre ci sono molti fattori che spingono un ragazzo a compiere questa scelta. È importante cercare di capire quali sono i motivi prima di farsi un’idea. Anche nel caso dei poliziotti, il motivo per cui si comportano così è che pensano siano dei ladri e che, in alcuni casi, possono essere associati a criminali e altre situazioni che la società non accetta.
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