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Veleni anche nell’abbigliamento outdoor, l’indagine di Greenpeace dagli Appennini alle Ande
Greenpeace, dopo aver dimostrato la presenza di PFC nell’abbigliamento outdoor, sta cercando di capire quanto questo possa aver inquinato l’ambiente.
Se pensavate di aver raggiunto un’idilliaca comunione con la natura dopo aver guadagnato vette montane apparentemente immacolate, forse vi siete sbagliati. È quanto potrebbe emergere da un’indagine condotta da Greenpeace, che ha esplorato sette luoghi remoti del pianeta alla ricerca di sostanze chimiche pericolose.
Nella fattispecie l’associazione ambientalista è andata a “caccia” di perfluorurati (PFC), sostanze chimiche pericolose ampliamente utilizzate da vari settori per le peculiari caratteristiche fisiche, come la resistenza termica e l’eccezionale idrofobicità.
Una volta rilasciate nell’ambiente tali sostanze sono difficili da smaltire, decomponendosi con estrema difficoltà, e possono danneggiare interi ecosistemi, contaminando a uno a uno ogni anello della catena alimentare. Tra i settori industriali in cui vengono impiegati i PFC c’è la produzione di abbigliamento outdoor, proprio per la loro impermeabilità ed elasticità.
Nel 2013 Greenpeace Germania, dopo aver testato numerosi capi di abbigliamento sportivo e outdoor e aver appurato la presenza dei PFC nella maggior parte degli indumenti, aveva pubblicato un rapporto dal titolo “La chimica per gli scalatori”.
«Quando acquistiamo una giacca per le nostre attività all’aria aperta, spesso immaginiamo di indossarla mentre ci godiamo una bella passeggiata in luoghi incontaminati – ha affermato Chiara Campione di Greenpeace Italia – la verità è che proprio chi produce l’abbigliamento più adatto per stare in mezzo alla natura inquina l’ambiente con alcune delle sostanze tossiche più persistenti».
Dopo aver analizzato i capi di abbigliamento ora Greenpeace ha deciso di verificare in che misura questi possono aver contaminato le aree naturali.
L’associazione ha dunque organizzato sette spedizioni in sette zone montuose e selvagge della Terra, Torres del Paine (Cile); i Monti Sibillini (Italia); i Monti Altai (Russia); i Monti Haba, (Cina); i Monti Tatra (Slovacchia); i laghetti di Macun (Svizzera) e Treriksroset, al confine fra Svezia, Finlandia e Norvegia.
La spedizione italiana si è recata al lago di Pilato, nel Parco nazionale dei Monti Sibillini, nelle Marche, l’unico lago naturale marchigiano e che ospita uno straordinario endemismo, il chirocefalo del Marchesoni (Chirocephalus marchesonii). La squadra ha raccolto campioni di acqua e neve che saranno inviati a un laboratorio in Germania per verificare la presenza di PFC.
«Dopo l’impegno preso da alcuni marchi del lusso, dell’abbigliamento sportivo e del fast fashion, è ora che anche il settore dell’outdoor si decida a ripulire le proprie filiere e l’ambiente dalle sostanze tossiche», ha concluso Chiara Campione.
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