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L’annuale indice mondiale sulla libertà di stampa ha evidenziato i crescenti pericoli che i giornalisti devono affrontare. L’Italia è al 43esimo posto su 180.
Il ruolo del giornalista è quello di indagare e raccontare la realtà mettendo in discussione, se necessario, l’autorità. “La stampa svolge una missione estremamente utile – scriveva nel 1848 il noto storico francese Jules Michelet – quella di una censura permanente sugli atti del potere”. Oggi quel ruolo è sempre più minacciato e la libertà di stampa è sotto attacco in molte, troppe, aree del mondo, anche in democrazie consolidate. L’ascesa di leader autoritari e nazionalisti, da Rodrigo Duterte nelle Filippine a Jair Bolsonaro in Brasile a Donald Trump negli Stati Uniti, ha contribuito all’aumento degli atti di violenza ai danni dei giornalisti, additati con sempre più frequenza come capri espiatori. La conferma di questa allarmane tendenza arriva dal World press freedom 2019, l’indice mondiale sulla libertà di stampa, pubblicato annualmente da Reporters without borders (Rwb).
L’indice mondiale sulla libertà di stampa “mostra come l’odio nei confronti dei giornalisti sia degenerato in violenza, contribuendo ad aumentare la paura”, si legge sul sito di Reporters without borders. Dal rapporto emerge dunque la crescente ostilità nei confronti dei giornalisti, spesso fomentata dai leader politici, e il numero di paesi considerati sicuri continua a diminuire. Dal 2002, primo anno di pubblicazione dell’indice da parte di Rwb, la situazione non era mai stata così grave. L’indicatore globale è peggiorato del 13 per cento dal 2013 e in questo lasso di tempo il numero di paesi in cui la situazione per i giornalisti è ritenuta buona è diminuito del 40 per cento.
L’indice calcolato da Rwb valuta ogni anno il livello di libertà del giornalismo in 180 paesi. Analizza, in particolare, il livello del pluralismo, l’indipendenza dei media, l’ambiente in cui i media operano e l’autocensura, il quadro giuridico, la trasparenza e la qualità delle infrastrutture che supportano la produzione di notizie e informazioni. Non valuta invece la politica dei governi degli stati analizzati.
Il 2018 è stato uno degli anni più letali mai registrati per i giornalisti, con oltre ottanta giornalisti uccisi in tutto il mondo. Il 2019 è iniziato altrettanto male, sono già dodici gli operatori dei media uccisi. Tra queste vittime ricordiamo Jamal Khashoggi, giornalista assassinato lo scorso ottobre nel consolato dell’Arabia Saudita in Turchia perché ritenuto scomodo dal regime saudita, e Lyra McKee, giornalista 29enne uccisa in Irlanda del Nord poche settimane fa da un giovane appartenente al gruppo di dissidenti repubblicani New IRA.
Nonostante i rischi e le minacce molti reporter investigativi continuano a lavorare in nome della verità. Per ostacolarli, secondo il rapporto, alcune nazioni come Francia e Malta (rispettivamente al 32esimo e al 77esimo posto nella classifica di Rwb), cercano di colpirli dal punto di vista finanziario, mentre in altre, come Polonia e Bulgaria (in 59esima e 111esima posizione), i giornalisti “troppo curiosi” vengono rinchiusi in carcere.
La Norvegia si aggiudica il primo posto nell’indice per il terzo anno consecutivo, completano il podio la Finlandia e i Paesi Bassi. La Svizzera ha perso il terzo posto dello scorso anno, scalando in quarta posizione, a causa dell’aumento delle molestie informatiche ai danni dei giornalisti. L’Africa, nel complesso, ha registrato un peggioramento del suo punteggio nell’indice 2019, ma anche alcuni dei più grandi cambiamenti nelle classifiche dei singoli paesi. L’Etiopia, ad esempio, ha scalato ben 40 posizioni classificandosi al centodecimo posto, merito del nuovo governo che ha liberato tutti i giornalisti detenuti.
I paesi sicuri per i giornalisti, come accennato in precedenza, sono sempre meno. Stando alla mappa elaborata da Rwb solo il 24 per cento dei 180 paesi esaminati sono classificati come “buoni” (di colore bianco nella mappa) o “abbastanza buoni” (giallo), rispetto al 26 per cento del 2018. Medio Oriente e Nord Africa, pur con qualche lieve miglioramento, continuano ad essere i luoghi più pericolosi per i giornalisti. I paesi peggiori, stando alla classifica, sono il Turkmenistan, che ha sottratto l’ultimo posto alla Corea del Nord, ora penultima, Eritrea, Cina e Vietnam. I regimi apertamente autoritari sono particolarmente pericolosi per i membri della stampa, vittime di arresti e violenze da parte delle forze dell’ordine, Venezuela e Russia, ad esempio, sono al 148esimo e 149esimo posto.
Tra i paesi che hanno peggiorato la propria posizione ci sono gli Stati Uniti (al 48esimo posto), classificati ora come paese “problematico” (arancione nella mappa). Per dare la misura del clima di odio verso i giornalisti statunitensi, il rapporto cita la sparatoria nella redazione del giornale Capital Gazette ad Annapolis, nel Maryland, nel giugno 2018, quando un uomo (che aveva reiteratamente espresso il suo odio per il giornale sui social network) uccise a colpi di arma da fuoco quattro giornalisti e una responsabile delle vendite. Tra le aree del pianeta esaminate, nelle Americhe si è registrata un netto peggioramento. Il Nicaragua (114esimo) è retrocesso di 24 posizioni, mentre il Messico è uno dei luoghi più pericolosi per i giornalisti, ne sono stati assassinati almeno dieci nel 2018.
Rispetto allo scorso anno l’Unione europea e i Balcani hanno fatto registrare il secondo peggioramento più evidente ( dell’1,7 per cento) nel punteggio regionale. Il Vecchio continente resta l’area più sicura per i giornalisti e in cui la libertà di stampa è più rispettata, ma i dati evidenziano una preoccupante inversione di tendenza.
L’Italia si trova in 43esima posizione e ha migliorato di tre posti il piazzamento del 2018. Anche in questo caso, tuttavia, gli autori dell’indice ritengono che la situazione potrebbe peggiorare, citando come esempio la querelle tra il ministro degli Interni Matteo Salvini e il giornalista Roberto Saviano. Lo scorso giugno infatti il leader della Lega, dopo essere stato apertamente criticato dal giornalista, aveva annunciato l’intenzione di verificare se ci fossero ancora le condizioni per mantenere la scorta all’autore di Gomorra.
Il World press freedom 2019 mette infine in guardia dal pericolo rappresentato dalla disinformazione, specie in alcune parti del mondo. In Myanmar, ad esempio, la manipolazione dei social network ha prodotto un’impennata dei messaggi di odio anti-Rohingya, un gruppo etnico di religione islamica, e le condanne a sette anni di prigione inflitte a due giornalisti di Reuters per aver tentato di indagare sul genocidio Rohingya sono state considerate “normali”. La censura è invece in crescita a Singapore e in Cambogia, “grazie” alla crescente influenza della Cina, evidenziando la stretta connessione tra il sistema politico di un paese e la libertà di stampa.
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