L’anno che sta per concludersi fa ben sperare per il futuro dell’energia solare. I dati globali sul fotovoltaico crescono, gli esempi positivi si moltiplicano. Sebbene resti molto lavoro da fare, seguire il sole ci manterrà sulla strada giusta.
5 disastri ambientali legati all’energia che hanno cambiato la storia
Chernobyl, Exxon Valdez, Deepwater Horizon, Prestige e Fukushima sono tra i più grandi disastri ambientali legati al mondo dell’energia per i quali stiamo pagando ancora le conseguenze.
Chernobyl, l’incidente della Exxon Valdez, quello avvenuto sulla Deepwater Horizon o sulla Prestige e Fukushima sono solo cinque tra i più grandi disastri ambientali accaduti per estrarre, trasportare o produrre energia negli ultimi 30 anni. Tutti incidenti legati al petrolio e al nucleare, i cui impatti sull’ambiente sono ancora oggi devastanti.
- 1986, Chernobyl: il più grande incidente nucleare della storia
- 1989, Exxon Valdez: distrutto l’ecosistema marino in Alaska
- 2002, Prestige: il petrolio fuoriuscito distrugge 1.700 chilometri di coste
- 2010, Deepwater Horizon: il petrolio entra nella catena alimentare degli animali dell’area
- 2011, l’ennesimo disastro nucleare a Fukushima
1986, Chernobyl: il più grande incidente nucleare della storia
Un guasto al reattore numero 4 della centrale atomica di Chernobyl, nei pressi di Kiev, lo fa esplodere. Era il 26 aprile 1986, 31 anni fa, quando accadde il più grande incidente nucleare della storia. Si sviluppò una nube radioattiva che contagiò in primis oltre 500mila lavoratori (quasi la metà della popolazione di Milano), coinvolti nel tentativo di contenere la contaminazione. Le sostanze radioattive continuarono a fuoriuscire e a ingrossare la nube radioattiva che investì tutta l’Europa. Si venne a creare un problema sanitario di proporzioni immense se si pensa che, a tutt’oggi, non vi è stato modo di stabilire con certezza i morti diretti e, tanto meno, quelli indiretti deceduti a causa di malattie e malformazioni genetiche generate dalle radiazioni e aumentate esponenzialmente negli anni successivi in molti Paesi raggiunti dalla nube radioattiva.
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In quel 1986, la centrale nucleare di Chernobyl, intitolata a Vladimir Lenin, era la più potente dell’ex Unione Sovietica. Allora, non si ebbe la consapevolezza della catastrofe che si stava consumando tant’è che gli altri tre reattori della centrale continuarono a funzionare e, fino al maggio del 1987, quasi un anno intero, proseguì anche la costruzione del quinto e sesto reattore, poi definitivamente abbandonati.
Oggi, a più di 30 anni dall’incidente nucleare, il reattore esploso è ricoperto da un sarcofago alto 105 metri, lungo 150, con una campata di 257 metri che pesa 29mila tonnellate e, nelle intenzioni dei progettisti, dovrebbe resistere per almeno 100 anni. Tutt’attorno all’impianto non c’è più nulla: la città di Pripyat che prima dell’incidente ospitava 50mila abitanti è ora in completo stato di abbandono. I costi ambientali legati a Chernobyl non sono mai stati calcolati con precisione, ma sono stimati in centinaia di miliardi di dollari.
1989, Exxon Valdez: distrutto l’ecosistema marino in Alaska
Il 24 marzo 1989, la petroliera Exxon Valdez si incagliò nella baia Prince William Sound in Alaska sversando in mare tra i 41,5 e i 119mila metri cubi di petrolio grezzo, l’equivalente di 17-47 piscine olimpioniche. Una tempesta con venti fino a 70 chilometri orari disperse il petrolio in lungo e largo. La marea che si alzò fino a sei metri portò il petrolio in superficie, lo fece penetrare in profondità nelle spiagge. Per pulire gli oltre 1.900 chilometri di costa inquinati dal petrolio della nave furono spesi 2 miliardi di dollari.
Furono necessari 11mila uomini, 1.400 navi e 85 aerei per lavorare alla pulizia dell’area che cominciò subito e continuò per i tre anni successivi. Le spese furono pagate da Exxon che un tribunale dell’Alaska condannò in prima battuta al pagamento di una multa da 150 milioni di dollari per crimini ambientali. Il verdetto, una volta accertata la piena ed efficace collaborazione nell’opera di bonifica da parte di Exxon, fu rivisto al ribasso rispetto alla cifra chiesta dall’accusa. Nessuna cifra potrà mai cancellare i danni ambientali che il disastro tra i peggiori della storia causò allo stretto di Prince William, un ricco ecosistema marino che andò distrutto, devastando gli habitat delle specie acquatiche che vi abitavano e inquinando i luoghi di nidificazione di moltissimi uccelli. Si stima che l’incidente causò la morte di oltre mezzo milione di uccelli marini, circa mille lontre, 300 foche, 250 aquile calve e 22 orche, oltre a milioni di pesci tra salmoni e sardine.
2002, Prestige: il petrolio fuoriuscito distrugge 1.700 chilometri di coste
Dal Portogallo alla Francia, 1.700 chilometri di costa e oltre duemila spiagge distrutte dalla marea nera di 77mila tonnellate di greggio riversate in mare dalla petroliera Prestige che il 13 novembre del 2002 ha riportato enormi danni mentre attraversava le Bocche di Bonifacio, in tempesta. Una zona chiamata anche “Costa della morte”, come sanno bene i marinai, per la pericolosità del mare. Dopo sei giorni, la petroliera si è spezzata in due a 250 chilometri di distanza dalla costa galiziana, inabissandosi a 3600 metri di profondità. I danni furono enormi, 17mila uccelli morti, intere coltivazioni di mitili distrutte, oltre 4 miliardi di euro di danni economici ed ambientali accertati, ma a 11 anni dal disastro, nel 2013, la sentenza del tribunale assolse tutti, nessun responsabile, né penale né civile e nessuno mai pagherà per l’enorme danno.
2010, Deepwater Horizon: il petrolio entra nella catena alimentare degli animali dell’area
L’esplosione sulla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico uccise 11 persone e determinò la fuoriuscita di petrolio che, dopo 87 giorni, raggiunse i 780mila metri cubi. Ci vollero più di cinque anni perché la BP fosse chiamata a rispondere, quantomeno economicamente, del danno arrecato alla fauna ittica, all’ecosistema, all’economia della pesca e alla salute di tutti coloro che si affacciavano sull’area interessata da quella che fu ribattezzata la “marea nera”.
Nel settembre 2014, un tribunale statunitense condannò la BP come responsabile del disastro a causa della sua totale negligenza e condanno la società petrolifera a risarcire 18,7 miliardi di dollari agli “stati del Golfo” degli Usa colpiti dal disastro ambientale. Secondo il dipartimento di Giustizia americano, il risarcimento è stato il più ingente con una singola entità, nella storia americana. Anche perché la portata dello sversamento è stata da record: si calcola che sia stata riversata in mare una quantità di petrolio 10 volte superiore a quella del disastro della Exxon Valdez del 1989. Un risarcimento record che tuttavia non ripara i danni causati dal disastro. Gli effetti dell’inquinamento generati dalla Deepwater Horizon sono tutt’ora in corso. I ricercatori della Louisiana State University e della Austin Peay State University nel Tennessee hanno infatti dimostrato che il petrolio fuoriuscito è entrato nella catena alimentare degli animali dell’area. Un’altra ricerca di Endangered Species Research ha invece messo in risalto i danni a lungo termine nella popolazione dei delfini dell’area che, a più di sei anni dal disastro, soffrono ancora di gravi malattie polmonari e di disturbi ormonali con gravi problemi riproduttivi nella specie.
2011, l’ennesimo disastro nucleare a Fukushima
L’incidente di Fukushima è il più grande disastro nucleare dopo Chernobyl. L’11 marzo del 2011, si abbatté sul nordest del Giappone un sisma e uno tsunami che spezzarono la vita di circa 18.500 persone, tra morti e dispersi, e causarono la fusione del nocciolo di tre reattori in funzione. L’onda di 14 metri che invase la centrale alle 15.35 mandò fuori uso 11 delle 12 pompe di raffreddamento e tutto il sistema di sicurezza andò in blackout. Le esplosioni che polverizzarono le gabbie esterne di contenimento del reattore 4 furono causate dall’idrogeno che si era generato dal vapore caldo entrato in contatto con le barre di combustibile nucleare surriscaldate. In quei giorni venne rilasciata una tale radioattività che l’incidente fu classificato di livello 7, il massimo raggiunto solo da Chernobyl.
Oltre 150 mila persone furono costrette ad abbandonare le loro case per sfuggire alla contaminazione radioattiva. La vicina città di Tomioka è ancor oggi abbandonata e il livello di radiazioni è ben al di sopra dei limiti consentiti. Anche in diverse zone circostanti il pericolo di esposizione alle radiazioni è ancora molto alto, sebbene il governo spinga molti sfollati (sono ancora centomila, circa la metà) a far rientro nelle loro case. Le ultime rilevazioni parlano di 4,01 microSievert/ora, valori 35 volte superiori rispetto alla massima dose annua fissata dalle Raccomandazioni della Commissione Internazionale per la Protezione Radiologica. E uno studio dell’Università di Okayama ha registrato un aumento dei tumori alla tiroide – come del resto già aveva previsto l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) nelle sue prime valutazioni – tra i bambini e i ragazzi che al momento della catastrofe nucleare di Fukushima avevano meno di 18 anni.
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