Il clima che cambia sta delineando una nuova geografia del cibo con l’agricoltura chiamata a rispondere alle sfide ambientali e di sicurezza alimentare.
L’agricoltura intensiva non sta sfamando il mondo, deve lasciare spazio all’agroecologia
Una transizione verso l’agroecologia è necessaria per superare i diktat di un modello produttivo che sta avvelenando il nostro Pianeta e la nostra vita. L’editoriale di Navdanya International.
L’agroecologia rappresenta una risposta alle crisi interconnesse della nostra epoca, non solo in ambito agricolo ma anche in quello economico e sociale. Da oltre trent’anni Navdanya, insieme ad altre organizzazioni della società civile di tutto il mondo, promuove un approccio circolare rigenerativo ed ecologico per contrastare il crescente degrado ambientale, la povertà, le emergenze sanitarie e la malnutrizione. Cambiare l’attuale paradigma agricolo di tipo estrattivo, basato sullo sfruttamento a senso unico delle risorse e delle ricchezze dalla natura, è da considerarsi una priorità dei nostri tempi.
La rivoluzione verde non è più sostenibile
Un cambio di paradigma di cui finalmente anche la Fao (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) ha preso atto in occasione del secondo simposio sull’agroecologia. Un passo importante nella giusta direzione, considerando che sia l’intervento del direttore generale della Fao Graziano da Silva che il documento finale del simposio denunciano la non sostenibilità del modello agricolo industriale della “rivoluzione verde” e la necessità di una transizione agroecologica.
A sostegno di questo viene sottolineato come l’agroecologia contribuisca direttamente al raggiungimento di alcuni dei più importanti Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable development goals, Sdg) come porre fine alla povertà e alla fame, garantire la qualità dell’istruzione, il raggiungimento dell’uguaglianza di genere, l’aumento dell’efficienza nell’uso dell’acqua, la promozione di posti di lavoro dignitosi, la garanzia di consumo e produzione sostenibili, il consolidamento della resilienza climatica, sicurezza dell’uso sostenibile delle risorse marine e arresto della perdita di biodiversità.
L’agroecologia come visione della vita che preserva la biodiversità
Gli studi e i risultati dei progetti presentati dalle oltre 350 organizzazioni della società civile presenti al simposio dimostrano come l’agroecologia funzioni e come potrebbe funzionare ancora meglio con il supporto dei governi e della ricerca scientifica. La Fao ha riconosciuto l’importanza della tradizionale conoscenza degli agricoltori e il ruolo cruciale che essi svolgono sul tavolo della sicurezza alimentare. Ciò che i piccoli produttori e i consumatori devono allora rivendicare è un nuovo paradigma agricolo ed economico, una cultura del cibo per la salute in cui la responsabilità ecologica e la giustizia economica abbiano la precedenza sugli odierni sistemi di produzione di estrattivi basati su consumo e profitto. La partecipazione di agricoltori e consumatori è essenziale per riuscire a superare un modello produttivo che sta avvelenando il nostro pianeta e la nostra vita e per promuovere un nuovo modello produttivo che preservi la biodiversità e promuova la sostenibilità ambientale. L’agroecologia è, infatti, non solo un insieme di tecniche, ma una visione della vita basata sul concetto di integrazione tra il genere umano e la natura come sottolineato nella dichiarazione dei piccoli produttori e delle organizzazioni della società civile.
L’agricoltura industriale non è quella che sfama
L’attuale sistema alimentare industriale basato su monocolture, sull’uso diffuso di prodotti agrochimici, sulla commercializzazione di semi geneticamente modificati, e sostenuto da politiche neoliberali e di liberalizzazione del commercio, rappresenta una seria minaccia con elevati costi sociali, ambientali e sanitari. Nel corso degli anni, abbiamo consentito alle aziende multinazionali di consolidare i loro monopoli e ottenere il controllo dei nostri semi, del nostro cibo e della nostra salute. L’agricoltura industriale è stata fondata e promossa sull’idea erronea che aumentare la produzione di cibo a basso costo fosse un passo necessario per sfamare la crescente popolazione del mondo. Tuttavia, dopo aver contaminato una consistente parte del suolo e delle falde acquifere, danneggiato, in molti casi in maniera irreparabile, la biodiversità e aver fornito un contributo decisivo all’aggravarsi dell’attuale crisi climatica, l’agricoltura industriale può rivendicare una porzione relativamente piccola della produzione alimentare globale. La maggior parte del cibo che mangiamo è infatti ancora prodotta da piccoli e medi agricoltori mentre la stragrande maggioranza delle colture provenienti dal settore industriale, come mais e soia, viene utilizzata principalmente come mangime per gli animali o per produrre biocarburanti. È il fallimento della rivoluzione verde poiché “l’aumento della produzione e della produttività ha raggiunto un costo ambientale elevato”, come ha sottolineato Da Silva, non risolvendo il problema della fame nel mondo: nel 2016 815 milioni di persone hanno sofferto di denutrizione mentre oltre 1,9 miliardi di adulti in tutto il mondo erano in sovrappeso con oltre 650 milioni di obesi.
Il punto di partenza è la sovranità agricola
Il problema non è allora la produttività ma la distribuzione, la povertà e la qualità del cibo. Dobbiamo promuovere la sovranità alimentare partendo dalla sovranità dei semi e impedire alle multinazionali di prendere il controllo della democrazia e dei sistemi di produzione alimentare. Di fronte all’evidenza del fallimento della rivoluzione verde, è necessario fermare un modello produttivo che priva i piccoli agricoltori dei loro mezzi di sostentamento, espelle le popolazioni rurali dalle loro terre per far posto all’agricoltura industriale, riduce la biodiversità per far posto alle monocolture.
In questo contesto, i consumatori non hanno altra scelta se non quella di acquistare cibo malsano, coltivato in terreni contaminati e avvelenato da sostanze chimiche. Un altro effetto collaterale di questa rivoluzione è che “l’uso diffuso di fertilizzanti chimici e pesticidi ha contribuito al degrado del suolo, all’inquinamento delle acque e alla perdita di biodiversità”, come sottolineato dal direttore generale della Fao. Affermazione corretta, a cui sarebbe utile aggiungere il conto stimato in termini di vite umane recentemente denunciato da Hilal Elver, relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto al cibo, che ha rivelato come i pesticidi abbiano “effetti catastrofici sull’ambiente, sulla salute umana e sulla società nel suo complesso”, e siano responsabili della morte di circa 200mila persone all’anno.
Guardando oltre i miti e la propaganda creata dalle multinazionali, c’è molta conoscenza, ricerca e casi concreti per affermare che non abbiamo bisogno di usare prodotti agro-tossici per produrre il nostro cibo. Quando gli agricoltori sono sovrani nell’agricoltura, dalle sementi agli input agricoli, riducendo la dipendenza dal mercato e costruendo la resilienza utilizzando le risorse locali, i sistemi agricoli diventano ecologicamente, socialmente ed economicamente sostenibili. L’agricoltura industriale non ha solo contribuito a danneggiare l’ambiente, ridurre i nutrienti nelle colture, aumentare i problemi di salute, ma ha anche inciso pesantemente sul cambiamento climatico. Oggi l’agricoltura industriale e il sistema alimentare globalizzato sono responsabili del 40 per cento di tutte le emissioni di gas serra. Le monocolture sono inoltre vulnerabili al clima instabile. Uno studio condotto da Navdanya in India in quattro diversi agroecosistemi (arido, semi-arido, sub-umido e umido) ha rilevato come l’agricoltura biologica possa aiutare a mitigare i cambiamenti climatici e aumenti la resilienza.
La Fao e le altre organizzazioni dell’Onu sono ora chiamate ad aumentare i propri sforzi per supportare l’agroecologia nel mondo e affiancare le organizzazioni della società civile e i piccoli produttori agricoli nel far pressione sui governi al fine di varare misure appropriate per diversificare le politiche commerciali, per lanciare programmi pubblici per la formazione, per l’assistenza tecnica e finanziaria, per il riconoscimento e la promozione dell’agroecologia.
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