Il clima che cambia sta delineando una nuova geografia del cibo con l’agricoltura chiamata a rispondere alle sfide ambientali e di sicurezza alimentare.
Beirut, nel campo profughi di Bourj el Barajneh dove si coltiva un orto biologico
Un progetto piccolo ma rivoluzionario: nasce nell’assoluta mancanza di spazio, vitale e abitativo, l’orto biologico realizzato sul tetto della Women Programma Association (WPA) nel campo profughi di Bourj el Barajneh, a sud di Beirut.
Un’oasi verde, ecosostenibile e produttiva in un’area critica di un chilometro quadrato di estensione, che accoglie oltre 40mila rifugiati, accanto al quartiere degli Hezbollah. Case precarie, addossate una sull’altra con grovigli di fili di corrente alle pareti e un posticcio sistema di tubature che portano l’acqua nelle case, quella salata che arriva dritta dal mare. Un microcosmo sovraffollato di rifugiati palestinesi, siriani e iracheni che vivono sotto la soglia di povertà, con pochissimi servizi a disposizione e scarse prospettive per il futuro. Qui è nato un orto biologico molto speciale.
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Un orto biologico sul tetto
Sul tetto della della Women’s Program Association (Wpa) si coltiveranno erbe e ortaggi da usare nella cucina di Soufra, l’azienda di catering al femminile che sta già dando lavoro a 45 donne legate alla Wpa, l’associazione che, lavorando in rete, promuove l’empowerment delle rifugiate in nove dei dodici campi profughi libanesi. Nell’orto, progettato dall’azienda libanese Cedar Environmental e finanziato con un contributo di 21mila dollari (poco più di 18mila euro) dall’ambasciata norvegese a Beirut, potranno essere coltivate oltre 2.600 piante in grossi contenitori di plastica, ognuno di questi ottenuto dal riciclo di decine di migliaia di sacchetti. Ogni vaso ecologico è stato riempito con 120 chili di compost fermentato da 240 chili di cibo di scarto, 266 litri di pellet in cellulosa ottenuti dal riciclaggio dei residui della produzione di fazzoletti di carta e di 266 litri di pacciame agricolo, che normalmente in queste zone viene bruciato. Grazie a questo sistema, la coltivazione può avvenire senza l’uso di fertilizzanti chimici, erbicidi o pesticidi.
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A sua volta, anche la Wpa si è dotata di un’unità di compostaggio per trasformare i rifiuti organici della cucina in fertilizzante naturale. Per ridurre l’uso dell’acqua il progetto include anche la realizzazione di un sistema di irrigazione che convoglia in taniche l’acqua condensata dai dieci condizionatori dell’edificio. La coltivazione diretta di prodotti freschi e biologici permetterà a Soufra di abbattere i costi e di aumentare notevolmente la qualità del loro marchio. Un progetto pilota che ha tra gli obiettivi quello di formare le donne attualmente impegnate nell’attività, perché possano mettere in campo le competenze acquisite e portare questo sistema in altre aree urbane.
Chi è Mariam al Shaar
Come per l’impresa di catering, in testa a questo progetto c’è Mariam al Shaar, nata e cresciuta nel campo e diventata la protagonista del film documentario Soufra del regista americano Thomas Morgan, con Susan Sarandon come produttore esecutivo, che sta girando le sale cinematografiche di tutto il mondo.
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Un’altra sfida coraggiosa e lungimirante per questa donna, considerata da molti una paladina, che da anni, in mezzo a mille difficoltà, sta lottando per tenere aperto anche il Nour Centre una scuola per 250 bambini rifugiati dai 6 ai 13 anni ed ha da poco inaugurato Nawras pre-school Centre, l’unico asilo che accoglie i piccoli, permettendo alle donne di seguire corsi di formazione professionale e personale per migliorare il proprio status e poter incidere, finalmente, sulla propria vita.
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