Dal nuovo giacimento, chiamato Johan Sverdrup, la Norvegia potrebbe estrarre quasi 3 miliardi di barili di petrolio. Di qui al 2070.
Stati Uniti: Trump apre alle esplorazioni petrolifere in Alaska, solo Eni risponde
La prima compagnia petrolifera ad aver abboccato all’amo di Trump sulle esplorazioni petrolifere nell’Artico è italiana.
Con il contributo di Simone Santi
Correva l’anno 2015 quando l’allora amministrazione americana guidata da Barack Obama decideva, per una somma di motivi, di sospendere le esplorazioni petrolifere battenti bandiera statunitense al Circolo polare artico. A quel tempo, la segretaria degli Interni Sally Jewell disse che la decisione era stata presa per via del calo del prezzo del petrolio sulle borse internazionali e delle pessime condizioni in cui le attività di esplorazione venivano condotte. Ma molte organizzazioni ambientaliste, Oceana in testa, si erano mostrate scettiche perché, nonostante la sospensione fosse un passo nella giusta direzione, non avrebbe significato la fine-fine delle trivellazioni artiche.
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Trump chiama, Eni risponde
Avevano ragione. A due anni di distanza il nuovo inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, ha deciso di sconfessare (anzi, “ribaltare”) ogni decisione in tema ambientale del suo predecessore e di tornare a cercare petrolio al polo Nord, uno degli habitat più delicati al mondo. All’input di Trump è seguito lo studio di un piano quinquennale da parte del Bureau of ocean and energy management (Boem), l’agenzia che fa capo al dipartimento dell’Interno oggi guidato da Ryan Zinke. Fino ad arrivare al via libera definitivo.
La notizia nella notizia è che la prima compagnia petrolifera a godere di questa nuova apertura verso un futuro fatto di rischi e pericoli per i lavoratori e per l’ambiente, non giustificati nemmeno dal mero profitto economico, è la multinazionale italiana Eni. Il 12 luglio il Boem ha approvato, in modo condizionato, il piano per condurre esplorazioni nelle acque artiche dello stato americano dell’Alaska, in particolare si tratta di quattro pozzi nel mare di Beaufort. A convincere l’agenzia americana della “bontà” del progetto Eni, sarebbe stato il precedente della piattaforma offshore sul giacimento Goliat, entrata in funzione nel 2016 nel mare di Barents, al largo delle coste della Norvegia. Le attività dovrebbero cominciare a dicembre per proseguire fino al 2019 solo nel corso delle stagioni invernali per evitare di mettere a rischio la sopravvivenza di balene e orsi polari nella regione. Ma lavorare d’inverno al Circolo polare artico, quando le notti sono infinite e ghiacciate, è difficilissimo. La scarsa luminosità rende più complicato svolgere ogni tipo di attività routinaria. Quindi far fronte e rispondere in modo tempestivo e adeguato a eventuali emergenze – quali sversamenti di greggio in mare aperto – è pressoché impossibile.
Shell e Chevron avevano gettato la spugna
Non a caso la decisione di Eni di riattivare la sua strategia di esplorazione nei mari artici – abboccando all’amo lanciato da Trump –, per ora, è isolata. Sempre nel 2015, la compagnia petrolifera Shell aveva volontariamente sospeso le sue attività a causa dei costi elevati, degli imprevisti e di un contesto sociale poco favorevole. Stessa posizione è stata espressa più recentemente da Chevron. L’Eni invece assicura che “procederà alle esplorazioni petrolifere nel mare de Beaufort, in Alaska, solo in condizioni di sicurezza, in modo graduale e ponderato, e minimizzando l’impatto ambientale”. O almeno è quello che la multinazionale petrolifera italiana ha assicurato nel corso dell’audizione convocata dalla commissione Esteri della Camera.
Le rassicurazioni di Eni e il ricorso già pronto
Nel corso dell’audizione, l’Eni ha presentato una breve memoria, in cui assicura che “non vi sono e non vi saranno operazioni Exploration & Production dell’Eni in ambienti in cui non esistono tecnologie che assicurino una completa gestione del rischio ambientale e fisico degli asset”. Luca Bertelli, chief exploration officer dell’Eni, ha sottolineato anche che le attività in Alaska saranno ben ponderate: “Eni ha affrontato e sta affrontando le sue attività in Artico con un approccio estremamente graduale – dice la memoria – e tutte le future attività di Eni e le operazioni saranno proporzionate alla disponibilità degli sviluppi tecnologici che permettano di assicurare sviluppi sostenibili di qualsiasi risorsa nell’Artico minimizzando gli impatti ambientali e sociali”.
Center for Biological Diversity | What You Can Do | Room for Wildlife https://t.co/6n0VTvRtPX pic.twitter.com/3nOYf7JCLv
— Carol Keiter (@carolkeiter) 30 luglio 2017
Ma intanto negli Stati Uniti il Center for biological diversity ha già presentato ricorso e così l’inizio delle operazioni, previste già per la fine del 2017, potrebbe già slittare. Secondo l’associazione non governativa americana impegnata per il rispetto della biodiversità marina, infatti, impatti ambientali e sociali sono a priori un rischio enorme per trivellazioni di questo genere a certe latitudini: il centro, che sottolinea intanto come la concessione decennale Eni nel mare di Beaufort sia stata rinnovata in extremis appositamente per questa operazione, nel suo ricorso parla di “progetto pericolosissimo”: infatti, per il legale dell’associazione, “una perdita di petrolio in quella zona costituirebbe un danno incredibile, e sarebbe impossibile da ripulire. È evidente che l’amministrazione Trump si preoccupa solo di soddisfare le compagnie petrolifere, senza tenere conto di obblighi legali, delle minacce arrecate alla sopravvivenza degli orsi polari o all’intero pianeta”. La prossima parola ora spetterà a un tribunale.
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