Il 27 novembre aprono le candidature per la seconda edizione di Women in Action, il programma di LifeGate Way dedicato all’imprenditoria femminile.
Entrare in contatto con se stessi per cambiare il mondo
Intervista a Peter Schellenbaum, psicanalista junghiano: “La ricerca di una maggior consapevolezza personale è l’unica via che può permettere di incontrare gli altri”.
Conosciuto in tutto il mondo per il suo libro “La ferita dei non
amati”, Peter Schellenbaum è docente all’Istituto Jung di
Zurigo, di cui è stato precedentemente direttore, e ha
fondato l’Istituto di Psicoenergetica a Locarno, in cui esercita e
insegna il suo approccio terapeutico che si propone di curare la
ferita più diffusa nella nostra società: quella
dovuta alla mancanza di amore. Una ferita che ci tocca più o
meno tutti – amati in modo sbagliato, troppo o troppo poco – e che
causa dolore, senso di solitudine e d’abbandono. Nascondere questa
sofferenza a se stessi porta a mettere in atto dei “giochi del non
amore”, con cui si riproducono le mancanze originarie e con cui si
creano, a propria volta, ferite negli altri, consolidando la
propria incapacità di essere felici.
Come si cura questa profonda ferita che tocca e influenza gran
parte della società? Schellenbaum sostiene che per liberarci
da una sofferenza bisogna prima “sentirla”, e sentirla anche nel
corpo, per far poi fluire le emozioni collegate a questo dolore e
liberarsene, così, finalmente. Attraverso il ruolo empatico
del terapeuta, che deve essere capace di entrare in risonanza con
la sofferenza del paziente, questo approccio porta le persone
più profondamente in contatto con se stesse, aprendo
così il cammino a un rapporto più autentico con gli
altri e con la vita stessa.
Quale è secondo lei il più grosso problema
dell’uomo occidentale contemporaneo?
Si potrebbe dire l’isolamento interiore. C’è tanta
comunicazione esteriore – internet, telefonini, email, fax – ma
è tutta comunicazione superficiale. Lo vedo nel mio lavoro –
e lavoro tantissimo con gruppi – quanto è grande questo
isolamento. C’è molta comunicazione e pochissima comunione.
Le vie di fuga sono molte: alcool droghe, sesso solo come
passatempo… La nostra è una società in cui
l’attività è esagerata e la comunicazione eccessiva,
senza nessun momento di solitudine, senza nessuna pausa. Le pause
sono molto importanti, nel parlare, come in musica; quando mancano
le pause, in un dialogo, la comunicazione rimane solo
superficiale.
E’ nella pause che possiamo entrare veramente in contatto con se
stessi e con la realtà che ci circonda. Non a caso
c’è così poca coscienza degli attuali problemi
economici ed ecologici: se uno è veramente è in
contatto con se stesso vive in modo diverso, e questo si vede anche
nelle piccole cose… per esempio non lascia scorrere l’acqua.
Penso che questo sia il cammino al cambiamento. E in questo la
psicologia può dare un contributo.
Quindi psicologia come invito per portare le persone più
profondamente in contatto con se stesse… e con il mondo?
Sì. In un gruppo, quando una persona entra in contatto con
se stessa cambia atteggiamento, respira profondamente, assume un
altra espressione e qualche cosa cambia anche nel rapporto col
gruppo, diventa un rapporto più vero. Siamo esseri sociali e
nell’entrare in contatto con noi stessi ci mettiamo contatto con
gli altri, nel riconoscere le nostre esigenze ci accorgiamo di
quelle degli altri. Il cambiamento della realtà passa
necessariamente per questo contatto più autentico e profondo
con se stessi prima di tutto. Come possono cambiare le strutture,
infatti, se le persone non sentono neppure l’esigenza del
cambiamento?
Quali consigli, a chi sta leggendo ora questa pagina?
Osare! Cercare il contatto. La vita quotidiana ci obbliga sempre a
fare di più – ci sono obblighi, impegni, lavoro… – e
perdiamo il contatto con noi stessi. Quando ci si rende conto di
essere entrati in questo circuito, diventa importante reinserire
momenti di pausa nella propria vita.
E’ ottimista? Come società riusciremo a fare questo passo
indispensabile di una maggior consapevolezza personale per una
maggior responsabilità nei confronti del mondo in cui
viviamo?
E’ un passo possibile, e in questo senso sono ottimista, ma se
essere ottimista vuol dire pensare che la salvezza si farà
da sola, allora no, ottimista non lo sono. Vedo che la situazione
attuale è molto seria e nel prossimo decennio verranno
decise cose essenziali. Ci sarà un punto oltre il quale
sarà troppo tardi. Dobbiamo capire che questa presa di
coscienza non è un lusso, ma una necessità.
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