La città a 15 minuti è un modello urbanistico che vuole garantire a ogni abitante l’accesso a negozi, scuole, servizi essenziali. Ma, c’è un ma…
Giulio Ceppi. Smart city è il contrario di mors tua vita mea
Il futuro delle città dipende dai cittadini. Il motivo lo abbiamo chiesto a Giulio Ceppi, l’architetto che ha curato la mostra dedicata alle smart city che apre in occasione della Milano design week 2018 e dura fino al 12 maggio.
Arrivati allo studio dell’architetto Giulio Ceppi – che sia davvero solo un architetto? – troviamo ad accoglierci Ewa Ades, una modella di origini nigeriane, cresciuta a Roma che ci mostra le varie sale e l’incantevole terrazza. Più che un ufficio sembra l’abitazione di un collezionista, piena di cimeli raccolti in varie parti del mondo, di fotografie, opere d’arte, cataloghi, ricordi di mostre e di progetti che fanno di Ceppi un artista eclettico e incapace di limitarsi all’architettura, ma desideroso di esplorare lo spazio in ogni sua forma.
Famoso per aver progettato l’avveniristico autogrill Villoresi Est, è appena tornato dalla Cina e dal Kazakistan e ora sta apportando le ultime rifiniture alla mostra Smart city: materials, technology and people. Voluta da Material ConneXion Italia in occasione della Design week 2018, è visitabile dal 16 aprile al 12 maggio negli spazi di Superstudio Più in via Tortona, 27 a Milano. L’obiettivo è quello di far sì che, attraverso i progetti presentati, i visitatori si immergano nella smart city, la città del futuro, tecnologica e resiliente, costruita su misura del cittadino nel rispetto dell’ambiente, dove la partecipazione è fondamentale, dove le imposizioni dall’alto sono un ricordo lontano. Sono i cittadini stessi a determinare l’evoluzione di questa città dove nessuno è lasciato indietro.
La smart city è la città del futuro, ma sottintende un ritorno al passato: il concetto di civitas e la partecipazione attiva da parte dei cittadini tornano ad avere fondamentale importanza. Come avviene questo processo e quali sono i benefici che comporta?
Sono d’accordo che la smart city vada intesa più come un processo che non come uno status quo, perché non è una somma di tecnologie, di sensori o di telecamere che vengono poste nell’ambito urbano e con questo la città diventa smart. Si tratta di rendere i cittadini più consapevoli di come si può vivere una città migliore, anche attraverso la tecnologia e le piattaforme sociali, ma soprattutto con la consapevolezza che le tecnologie oggi ti permettono di gestire la complessità e le trasformazioni in tempo reale.
Il passaggio fondamentale avviene se c’è un’educazione dei cittadini a capire come la città si comporta. Altrimenti la metafora, che a tanti architetti è sempre piaciuta, della città come un organismo rimane un disegno sulla carta. Magari ha la forma di un animale o di un fiore, ma in sé non è un organismo, bensì la rappresentazione mortifera di un organismo. Invece oggi le tecnologie ci permettono davvero di avere dei processi decisionali dal basso e di ottenere informazioni in tempo reale, e queste due dinamiche trasformano il modo di vivere la città. Poi è chiaro che c’è anche un aspetto hardware, c’è bisogno di materiali, di servizi, di piattaforme, però la parte più importante sono i cittadini, perché sono le persone che abitano in una città che devono renderla smart, quindi sono più gli smart citizens che ci interessa rendere protagonisti che non le tecnologie in sé.
Lo si fa in maniera molto capillare e diffusa, non c’è un modello che può essere replicato in maniera vincente in tutte le città – questo è un po’ quello che abbiamo chiamato l’approccio latino. Non esistono dieci punti che se li applichi funzionano sempre, perché Venezia ha diritto di essere smart come Assisi, Milano, Roma; in Italia non ci sono due città uguali, mentre quelle americane sono più simili a volte anche solo come morfologia, come tipologia edilizia, di conseguenza certe soluzioni universali sono più credibili. Da noi le soluzioni universali non sono applicabili: al di là della diversità delle città c’è quella dei cittadini, in Italia in ogni città la gente si comporta in modo diverso e ha stili di vita diversi.
Quello che si può fare secondo me è guardare quello che fanno gli altri: in Europa ci sono tantissimi modelli virtuosi, da Stoccolma in Svezia a Trondheim in Norvegia, a Malmö: è pieno di città che stanno applicando o usando il car sharing, l’elettrico, la mobilità in maniera partecipata, diffusa, e anche Milano credo che stia dicendo la sua. Con la svolta di Expo, a Milano in questi ultimi anni c’è stato un risveglio, la città si è mobilitata anche dal basso. Ripeto, non è solo una questione di chi governa perché sennò torniamo al vecchio modello ingenuo dell’urbanista che pensa a disegnare la città sulla carta e poi non ha il controllo di niente. Ma basta pensare alle car2go, al bike sharing: sono servizi che poi la gente deve usare e anche imparare a usare. Io tra l’altro sono quello, per fare un esempio, che ha disegnato l’Area C, cinque o sei anni fa; era stata all’inizio devo dire non molto amata dai milanesi, soprattutto dai commercianti che dicevano: “Adesso qua non verrà più nessuno a fare la spesa”. Oggi in centro c’è l’aria più pulita che in periferia, la gente è più contenta e anche i commercianti, che a volte sono un po’ conservatori e hanno sempre paura della modifica dello status quo, hanno capito che se uno arriva, parcheggia e può passeggiare serenamente, magari alla fine compra anche più volentieri.
Si tratta di cambiare un po’ i propri comportamenti e di accettare delle trasformazioni che a volte non hanno sempre e solo te stesso come primo attore che ne trae i vantaggi. Questo è un altro aspetto legato alla civitas, perché secondo me una smart city è una città dove gli abitanti capiscono che anche gli altri hanno bisogno di diritti: se è sempre mors tua vita mea è difficile in questo scenario pensare che le tecnologie risolvano i problemi, perché non li risolvono comunque. Il car sharing, il bike sharing, le zone a traffico limitato o la congestion charge (come l’Area C, nda) sono già esempi dove la collettività inizia a essere considerata più dell’individuo. E in Italia siamo molto individualisti.
Quanto è importante la resilienza per le smart city? Ogni città ha esigenze diverse e problematiche specifiche: le si affronta con strategie di mitigazione e adattamento?
Qualcuno oggi parla di città resiliente come la nuova frontiera della smart city: al di là delle etichette (io ho parlato di “city by all”, per citarne una terza), la resilienza è un tema. Il climate change e le catastrofi conseguenti, le difficoltà a gestire il freddo, il caldo, l’emergenza meteo, sono cose che le città devono imparare ad affrontare, spesso anche in tempo reale perché le previsioni di questi eventi sono a volte quasi impossibili. Ci sono anche nella smart city degli slittamenti un po’ bizzarri che vanno gestiti, però il tema del climate change e quello della resilienza sul piano sociale, cioè il fatto che oggi le città hanno delle popolazioni molto più dinamiche, migratorie o delle varianti anagrafiche sempre più importanti perché saremo sempre più vecchi e sempre più affollati, fanno sì che se tu non hai la capacità di reagire in tempo reale a queste pressioni, la tua smartness non c’è.
Io ad esempio sto stilando per la A2A, l’impresa di gestione dell’energia di Milano, delle linee guida per la nuova sede sociale che deve costruire. Dialogando con i dipendenti della A2A è saltata fuori una questione abbastanza impressionante. Se negli ultimi anni tutti chiedevano l’asilo aziendale per i propri bambini, loro invece hanno detto: “Bambini? Ma noi di bambini non ne abbiamo, non ne facciamo più, abbiamo bisogno di un posto per portare i nostri genitori. Invece di lasciare i nostri genitori a casa con una badante, noi li portiamo in ufficio e voi ve ne occupate”. Questo da un lato fa venire la pelle d’oca perché fa capire che città o che popolazione stiamo diventando, però significa anche che bisogna avere la capacità di cogliere le trasformazioni e quindi di gestire il servizio di trasporto, creare degli spazi, dei servizi. Magari inizia una società a farlo ma poi la imitano anche altri perché quel tema non ce l’hanno solo loro, è un trend generale della popolazione: la differenza col vecchio modello di urbanistica è appunto che a volte le trasformazioni avvengono in maniera epifenomenica, cioè iniziano da un punto ma poi quel punto ha una propagazione e una rapidità di clonazione notevole. Se un ufficio di Milano lancerà uno spazio per gestire gli anziani, scommetto che in tre anni ce ne saranno 400 e questo probabilmente modificherà i trasporti, le logiche, i servizi. Non è più una decisione presa a monte da qualcuno che agisce dall’alto.
Ormai la smart city si modifica molto dal basso e per punti, che però sono collegati fra di loro, quindi il fatto che si modifichi un punto piano piano crea un’evoluzione in tutto il sistema, tutto diventa più flessibile e più resiliente. Ovviamente è un processo, non c’è la bacchetta magica o la sfera di cristallo con cui controlli tutto; devi ogni volta preparare degli strumenti, reagire con protocolli in maniera molto rapida a questioni che sembrano puntuali, ma hanno sempre una scala sistemica perché ormai niente è più isolato. Nel mondo del design uno parte dalla user-experience, dalle persone e dai bisogni dei singoli dentro un complesso che poi è un organismo sofisticato come una città, però alla fine sono le persone che cambiano le cose, non solo le decisioni dall’alto, e questa è anche una grossa differenza data dal digitale, dalle soluzioni più liquide che abbiamo a disposizione.
Inclusione sociale significa non lasciare nessuno indietro. Tra qualche anno, quasi tutti abiteranno in città. Com’è possibile concepire una città sempre più grande che accolga tutti senza il disagio delle periferie?
Questo è un po’ il concetto che scherzando chiamavo prima “city by all”. Un altro degli strumenti importanti che sta diventando evidente in questi anni è il design for all, oppure il concetto di inclusione, di universal design. Lavorare per un gruppo preciso di persone non vuol dire isolarle o renderle diverse dagli altri, quindi io posso lavorare sui bambini, sui ciechi, sugli anziani, sulle donne incinte piuttosto che sui pendolari della Milano-Pavia, però non vuol dire che non li sto mettendo in relazione con tutto il sistema. Una volta c’era una logica più markettara in cui le persone erano target da colpire: oggi non si tratta più di colpire, ma si tratta per fortuna di creare delle attenzioni e dei servizi che devono essere nutriti. Questo è un approccio che spero diventi sempre più diffuso e popolare ed è sicuramente un modo per evitare che si facciano degli errori commessi in passato di programmazione ingenua come lo zoning – metto questo qui, questo là, creo delle differenze. Oggi si stanno ribaltando tante cose rispetto al passato, ad esempio gli stranieri che arrivano qui vedono la periferia come la parte più vivibile e più interessante della città, poi magari devi spiegare loro che andare a vivere a Sesto San Giovanni è diverso che vivere in centro a Milano. In ogni caso anche il rapporto centro-periferia è cambiato: le città stanno diventando 24-365, con i supermercati sempre aperti; io ad esempio ho lavorato tantissimi anni per Autogrill, che è una realtà interessante perché è sempre in funzione.
Ho progettato l’autogrill Villoresi Est, dove ci sono tutti i servizi per le donne incinte, i bambini, i proprietari di cani, i motociclisti, ma non vuol dire dividerli, vuol dire che ognuno ha qualcosa in più per sé che non lo mette contro gli altri. Io credo che se i nostri amministratori e i nostri progettisti avessero questa consapevolezza e si progettasse un po’ meno a tavolino ma un po’ più guardando effettivamente i comportamenti delle persone, forse ecco certi errori che sono stati fatti in passato non si farebbero più. Anche perché noi abbiamo un vantaggio, rispetto al mondo asiatico o altre realtà, non andiamo così veloce come vanno loro. Sono appena tornato dalla Cina e lì ti accorgi che hanno fatto degli errori pazzeschi, perché hanno avuto un’accelerazione rapidissima.
Anni fa quando ero in India ho sentito un discorso del loro primo ministro che non parlava più di paesi in via di sviluppo o paesi sviluppati, del famoso terzo mondo, ma parlava di paesi a crescita lenta e di paesi a crescita veloce: noi dobbiamo considerarci un paese a crescita lenta – anzi, a volte anche a decrescita lenta – però dobbiamo fare di questa lentezza una qualità. In Cina hanno generato delle città invivibili, a Shanghai e a Pechino non respiri, mentre l’Area C nasce per avere un’aria migliore, per permettere a tutti di respirare. Perché se fai delle città dove non respiri, puoi avere i monumenti più belli, gli edifici firmati da archistar, ma servono un po’ a poco. Quindi io mi auguro che in futuro, integrando l’approccio bottom-up con quello top-down, si riescano ad evitare le ingenuità del passato, o le arroganze – perché a volte non si è trattato di ingenuità, ma dell’arroganza del denaro.
Come ha concepito la mostra dedicata alle smart city e qual è l’obiettivo finale?
La mostra è stata concepita da un lato guardando dei grandi trend, dei processi di trasformazione che sono in atto e cercando di capire come questi trend, tipo il climate change, l’invecchiamento della popolazione oppure il tema della nutrizione diversa, dell’agricoltura urbana stanno cambiando la dimensione delle città, e dall’altro lato creando sei cluster, sei agglomerati funzionali dove le cose precipitano nel concreto: ci sono una quarantina di soggetti, da università ad aziende piccole e grandi che danno un contributo all’interno di questa matrice. Vuole essere un insieme di esempi in cui si capisce come chi lavora sul planet under stress, che è uno dei grandi trend, ma anche sul tema della sostenibilità e dell’uso intelligente delle risorse possa portare un contributo.
Faccio questo esempio perché ci stiamo lavorando direttamente e quindi lo conosco molto bene: Unilever, che è una grande multinazionale, viene alla mostra con un progetto che probabilmente uno non si aspetterebbe, riguardante il risparmio d’acqua durante il lavaggio dei piatti a mano. Ci si potrebbe chiedere cosa c’è di tecnologico e cosa c’entra con le smart city, il problema è che un lavaggio con la lavastoviglie consuma mediamente 5 litri d’acqua (oltre all’energia), ma lavare a mano i piatti di 2-3 persone richiede almeno 20 litri: se tu non rendi le persone consapevoli di questo alla fine la città si trova senz’acqua. Chiaramente ci sono altre attività domestiche che spendono più acqua di un lavaggio piatti, però questa è una cosa che si fa tutti i giorni, due o tre volte al giorno, quindi bisogna stare attenti. Poi ci sono situazioni dove l’acqua è già una risorsa preziosa – lo è sempre, ma in alcune aree è più evidente: come posso usare le nuove tecnologie per rendere le persone più consapevoli di questo? Posso mettere un sensore sul rubinetto che invia un messaggio tramite un app sul cellulare oppure posso mettere le persone in rete per vedere chi si è comportato in maniera virtuosa o se un condominio è stato più efficiente di un altro.
Anche un’azienda come Unilever, che fa detersivi, è interessata a far sì che nell’uso del proprio prodotto ci sia awareness; la smartness sta nella fornitura di device, di piattaforme che ti aiutano, e con l’internet of things sarà sempre più facile. Una cosa che abbiamo ideato è un piatto che ti dice quanto sporco c’è sopra, ti dice che per lavarlo non puoi usare più di mezzo litro d’acqua, ad esempio. Che poi la gente mentre lava i piatti parla, si distrae, fischietta; qualcuno li tratta tutti allo stesso modo, in realtà c’è il piatto più sporco e quello più pulito. Sono esempi un po’ provocatori e un po’ borderline, ma siccome ormai passiamo il tempo a guardare il cellulare, bisognerebbe che ci dicesse anche qualcosa di utile ogni tanto su come comportarci in maniera virtuosa.
Sono una quarantina di esempi molto diversi fra loro che vanno dall’arredamento alla moda, dallo smart living all’abbigliamento: il Massachussetts Institute of Technology e la Puma presentano una maglietta che cambia colore quando vai a correre. Poi ci sono l’Atm e la Tesla che lavorano sui trasporti, sui servizi: c’è la scala micro, c’è la scala macro, le multinazionali, le piccole start-up. L’obiettivo è di rendere i cittadini più partecipi, più sensibili, più attenti ai loro comportamenti e a un modello partecipativo di città, in cui non sono gli altri che ti risolvono i problemi ma sei anche tu che devi prendere, attraverso le tecnologie, delle decisioni e capire cos’è meglio fare, per te ma anche per gli altri. In Italia non è proprio facile, nel Norduropa sono un po’ più sensibili: noi latini a volte siamo un po’ troppo egotici, o egoriferiti, mentre nel Nordeuropa a volte sono fin troppo attenti alla collettività.
In Svezia hanno appena introdotto una tassa ambientale sui voli in partenza. Quello è un po’ il modello tedesco: “you pollute, you pay”. A me non piace tanto, lo trovo poco partecipativo. Io credo che dobbiamo attuare dei modelli che chiamo maieutici, cioè dove tu vieni premiato se ti comporti bene. Il primo livello è darti “una bacchettata sulle dita” se fai una cosa che inquina, lo capisco, però in verità dopo la bacchettata bisognerebbe fornire delle alternative. Se io uso Skype invece di prendere l’aereo, qual è il mio premio? La gente la devi premiare, come quando educhi le persone: ogni tanto una carezza gliela devi dare, non puoi solo prenderle a sberle. Il modello tedesco non si adatta alla nostra cultura latina, ci vuole un po’ più di coinvolgimento. Non può essere solo “paghi perché inquini”, è un passaggio ma non basta se vogliamo che la gente cresca in consapevolezza. Per cambiare davvero devi sentirti portatore di un nuovo comportamento virtuoso; se sei un modello per gli altri, diventi il leader.
Mi dica tre cose assolutamente da vedere alla mostra.
Ci sarà una mostra molto interessante del Politecnico di Milano dove gli studenti del corso di Prodotto hanno immaginato un uso delle nanotecnologie, delle biotecnologie e della genomica molto sostenibile e molto futuristico, però passando attraverso le professioni del futuro perché, ripeto, il futuro è diverso perché noi siamo diversi, facciamo cose diverse e ci saranno anche lavori diversi che oggi non ci sono, quindi nell’esercizio di immaginarti il futuro devi immaginare come le persone lo vivranno e cosa faranno. È una mostra interessante perché fa vedere come i giovani lavorano sulla produzione di suggestioni, anche se molto caricate tecnologicamente. Poi c’è questo progetto di Unilever che secondo me è molto interessante perché può sembrare un aspetto secondario, ma in realtà il consumo dell’acqua passa attraverso tanti passaggi che sono tutti importanti.
In più c’è il tema di come cambia il lavoro: ci sarà un modello di ufficio che si chiama Sss (smart sense system) della Citterio in cui l’ufficio diventa sempre più un luogo di rigenerazione, di trattamento dell’aria, della luce, di riequilibrio tra il reale e il virtuale, perché noi viviamo tanto tempo davanti agli schermi e ogni tanto abbiamo bisogno di riprendere coscienza del nostro corpo e del nostro stato di salute. L’ufficio non è solo un posto dove vai a lavorare, è un posto dove ogni tanto ti devi risvegliare dall’invasione della display driven society, dal fatto che viviamo in una società dove passi il tempo davanti a un computer, davanti a uno smartphone, davanti a un laptop; sei sempre lì a vivere esperienze differite, ma hai bisogno di momenti di riappropriazione del tuo corpo, anche mentre lavori, anche in un co-working dove la gente sta insieme, ma poi ognuno va avanti a fare le proprie cose. Quindi c’è il tema del lavoro, c’è il tema dell’educazione, della domesticità. Queste sono tre cose – spero – interessanti.
Lei ha lavorato a progetti molto variegati. Come si definisce?
Sono un eclettico, ma sono anche uno che ama guardare le cose da lontano, per cui il lavoro che facciamo qui è quello di immaginare le cose in un tempo di 3-5 anni, perché se uno guarda sempre solo al trimestre e a quello che deve fare come azienda per vendere e fare profitto nei prossimi tre mesi, non è detto che vada nella direzione giusta. Un po’ come nel quadro di Bruegel, dove il cieco finisce nel lago e tutti gli altri lo seguono. Devi essere capace di guardare più in là. Questo è un po’ l’esercizio che facciamo noi, senza avere bacchette magiche o sfere di cristallo ma cercando di capire come cambiano i comportamenti della gente e aiutare le aziende, le associazioni, le istituzioni a prendere delle strade nuove.
Devo dire che in Italia siamo stati molto bravi in questo, la storia del nostro design è fatta di imprenditori molto coraggiosi, ma negli ultimi dieci anni ci siamo un po’ assopiti, un po’ spaventati e ci siamo chiusi nell’auto celebrazione, nel made in Italy e nel dire: “Come siamo bravi”, ma non basta. Dobbiamo essere molto più competitivi, la gente viene in Italia perché noi abbiamo antenne, sensibilità, intuito. Per innovare hai bisogno di muoverti su più livelli, per questo devi essere un po’ eclettico perché tocchi l’architettura, il design, la comunicazione; un prodotto lo devi vendere online, ma devi avere anche un bello showroom e un sito accattivante. A me interessa guardare un po’ più in là di quello che c’è sotto il mio naso. È importante che qualcuno lo faccia: chiaramente non ci azzecchiamo sempre, però cerchiamo di non sbagliare troppo (ride).
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