La cultura vale 255 miliardi. Lo dice il rapporto Io sono cultura di Fondazione Symbola

È stato presentato il 7 marzo a Milano l’ultimo rapporto Io sono cultura di Fondazione Symbola e Unioncamere. Ecco i dati

Non solo la cultura fa bene all’economia e all’occupazione, ma è intrinsecamente connessa a uno sviluppo in chiave sostenibile del Paese e consente alle imprese di avere un impatto sociale positivo per i territori. In breve, queste sono le principali riflessioni emerse dalla presentazione dell’ottavo rapporto elaborato da Fondazione Symbola e Unioncamere Io sono cultura – L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi – che si è svolta lo scorso 7 marzo a Milano nella sede del Touring Club.

All’incontro, sostenuto da Fondazione Cariplo, erano presenti Filippo Del Corno, assessore alla Cultura del Comune di Milano, Ermete Realacci, Presidente di Fondazione Symbola, Leopoldo Freyrie, architetto e promotore di Symbola, Giovanna Barni, Presidente di CoopCulture, Franco Iseppi, Presidente del Touring Club. Ha coordinato i lavori la giornalista Elisabetta Soglio.

Il rapporto Io sono Cultura: di cosa si tratta

Abbiamo già parlato, su queste pagine, del rapporto Io sono Cultura. Ricordiamo brevemente di cosa si tratta: è uno studio realizzato dal 2011 e che si propone di misurare la ricchezza generata da imprese, PA e no profit del Sistema produttivo culturale. In pratica, vuole valutare, numeri alla mano, se con la cultura “si magia” e quanto. Obiettivo: cercare di guardare l’Italia e il sistema paese con occhi diversi.

Vengono indagate cinque aree: quattro riguardano settori culturali propriamente detti, chiamati ‘core’, e cioè industrie creative (architettura, comunicazione e design), industrie culturali (cinema, editoria, videogiochi, software, musica e stampa), patrimonio storico-artistico (musei, biblioteche, archivi, siti archeologici e monumenti), performing arts e arti visive. Il quinto settore, detto creative driven, riguarda invece le imprese che non possono prescindere dalla cultura, come la manifattura evoluta e l’artigianato artistico.

“Noi cerchiamo, nell’Italia che c’è, le radici del futuro”, ha affermato Realacci. “L’Italia ha una grande capacità di affrontare il futuro a partire dai suoi cromosomi. Lo storico Carlo Cipolla diceva che la missione dell’Italia è produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo. Questa capacità di innovazione e adattamento attraversa tutti i settori. Nel campo della cultura questo sigifica partire dalla capacità di produrre bellezza, per affrontare non solo i tema del turismo sostenibile o dei consumi culturali, ma anche il tema di come questa bellezza diventa, per esempio, manifattura. Quanto del saper fare italiano, attraverso il design o l’innovazione, si nutre di quello che l’Italia è stata. Il nostro passato ci ha dato la capacità tutta italiana di incrociare la bellezza con l’innovazione, la coesione con le tecnologie.”

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“Noi cerchiamo, nell’Italia che c’è, le radici del futuro” (Ermete Realacci) © Symbola

I numeri del rapporto Symbola di quest’anno

Cosa emerge dal rapporto di quest’anno? Innanzitutto un numero da tenere bene a mente: 255,5. In miliardi di euro, è la somma della ricchezza prodotta dalle industrie culturali propriamente dette e da quelle creative driven (che generano da sole 92 milairdi) e dall’indotto (che vale oltre 163 miliardi). In tutto, si tratta di poco meno del 17 per cento del pil italiano. Non poco per un settore sempre più spesso denigrato e oggetto, negli ultimi anni, di crescenti pregiudizi espressi anche da una certa parte della stampa.

Editoria e stampa al top, seguite da videogiochi e design

Il core cultura genera oltre 57 miliardi di euro l’anno. Le industrie culturali sono quelle che producono più valore aggiunto (oltre 33,6 miliardi, pari al 2,2 per cento nazionale) e hanno 488mila occupati, seguite dalle industrie creative (con oltre 13,4 miliardi e 261mila posti di lavoro). Le perfoming arts generano quasi 8 miliardi e danno lavoro a 141mila persone, mentre il patrimonio storico artistico si attesta a fanalino di coda, con 2,8 miliardi di valore aggiunto e 51mila addetti. Tra le performance migliori, ci sono quelle del sottosettore dell’editoria e stampa (13,8 miliardi), videogiochi e software (12 miliardi) e architettura e design (quasi 8,6 miliardi). Il settore creative driven genera invece quasi 34,5 miliardi.

Favoriti giovani e donne con elevati titoli di studio

Dallo studio emerge anche che un aumento del valore aggiunto del 2 per cento rispetto al 2016 – i dati del rapporto presentato quest’anno sono relativi al 2017 – e dell’occupazione dell’1,6 per cento. Come ha ricordato Leopoldo Freyrie, il dato interessante riguarda il genere, l’età e il titolo di studio dei lavoratori del settore: sono alte le percentuali di donne e giovani, e il 42 per cento degli occupati è laureato. Significa che i mestieri che hanno a che fare con la cultura generano un impatto sociale positivo e tendono – seppur poco – a contrastare le differenze di genere presenti nell’attuale mercato del lavoro.

Dove c’è patrimonio storico artistico e paesaggistico, si fa più impresa

Le imprese del comparto sono oltre 414mila e incidono per il 6,7 per cento sul totale delle attività economiche del Paese. Di queste, quasi 290mila sono direttamente collegate alle attività culturali e creative. La notizia davvero interessante riguarda il “dove” si fa impresa culturale.

Oltre a Milano, prima tra le province italiane che producono più ricchezza e posti di lavoro principalmente grazie al settore del design, e a Roma, al secondo posto, dove le imprese appartengono a settori culturali più “tradizionali”, i luoghi dove si fa più impresa con la cultura sono infatti i territori che ospitano i siti Unesco. Parliamo del 40 per cento circa delle imprese culturali che hanno sede nel 10 per cento dei comuni italiani.

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Giovanna Barni ha ricordato che circa il 60 per cento dei siti di interesse storico artistico è attualmente sottosfruttato e non valorizzato in maniera adeguata. © Symbola

Il dato è confortante ha spinto i relatori a tre riflessioni: primo, è un numero da leggere assolutamente in positivo, se pensiamo che l’Italia ha molto più patrimonio di quello censito dall’Unesco. Come ha ricordato Giovanna Barni, circa il 60 per cento dei siti di interesse storico artistico è attualmente sottosfruttato e non valorizzato in maniera adeguata.

Secondo, certifica che i settori della cultura sono strettamente interconnessi l’uno all’altro. Anche se gli occupati nella gestione del patrimonio sono pochi e il valore aggiunto non arriva a 3 miliardi, la spinta imprenditoriale nei luoghi dove sono presenti siti di interesse storico artistico è più alta che altrove. E come ha ricordato sempre Barni, si tratta di imprese in gradoi di coinvolgere la comunità, di radicarsi nei territori, generando un impatto sociale positivo.

Terzo, che economia e cultura vanno di pari passo. Freyrie ha ricordato che, nella storia, quando città come Atene o Firenze hanno puntato sulla cultura, hanno prodotto anche importanti risultati economici.

La centralità del paesaggio (culturale)

Ultimo, ma non meno importante: nel dibattito sui dati di quest’anno, Iseppi ha ricordato la centralità del paesaggio. Un paesaggio antropizzato, “umanistico”, fatto di stratificazioni culturali, che attira il 94 per cento dei turisti stranieri che tornano nel nostro Paese per fare le vacanze. Un patrimonio preziosissimo che fa bene ai territori e su cui c’è ancora tantissimo da lavorare.

Il rapporto Io sono cultura, insomma, dà come sempre buone notizie per orientare scelte e investimenti. Sta a noi saperle leggere.

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