L’Italia è tra i paesi europei a consumare più pesce, parliamo di 30 chili pro capite all’anno, e che spende di più per i prodotti ittici: parliamo di oltre 880 milioni di euro tra il 2020 e il 2021 secondo i dati Eumofa.
Secondo i calcoli più recenti pubblicati dall’Api, l’Associazione piscicoltori italiani, l’allevamento di pesci in Italia ha superato i trecento milioni di euro di giro d’affari e produce 54mila tonnellate di pesci di venti specie diverse, distribuiti in più di settecento siti produttivi. Al primo posto per volume di produzione ci sono le trote, allevate nell’ordine delle 29mila tonnellate ogni anno, seguite da orate e spigole con oltre 17mila.
E il numero di individui allevati? Non è disponibile, come invece accade per polli, maiali, mucche e altri vertebrati, e questo la dice lunga sulla percezione che la nostra società in senso ampio ha di questi animali, che attualmente sono i più sfruttati numericamente ma quelli meno tutelati dalle leggi.
Una nostra indagine diffusa in questi giorni mostra come vengono allevati i pesci in uno stabilimento in provincia di Treviso. Le immagini sono molto forti: uno storione viene sbattuto violentemente a terra, alcuni letteralmente agganciati alla bocca con un uncino e scaraventati nei cestelli, altri sono spezzati a metà e c’è molto sangue sia nell’acqua che per terra.
I controlli non aiutano a prevenire queste situazioni: secondo quanto dichiarato dal responsabile di produzione, i veterinari ometterebbero di contestare alcune pratiche illecite e avviserebbero l’azienda prima di procedere con le visite. Ma molte delle pratiche documentate sono legali, perché, come accennavamo all’inizio, mancano tutele adeguate per questa specie, sia a livello europeo che nazionale.
L’acquacoltura intensiva ha un costo enorme: lo scorso anno, la cifra record di 17 milioni di pesci è morta prematuramente solo negli allevamenti in UK, con un aumento del 193% rispetto al 2020.
Addirittura, in Italia, allevamenti come questo potrebbero essere certificati come da “acquacoltura sostenibile”, un’etichettatura sviluppata dal Ministero dell’agricoltura insieme alle associazioni di produttori di pesce (Api) e di molluschi (Ama) nel 2020 che rischia di confondere profondamente i cittadini. Nel disciplinare di certificazione manca infatti una chiara definizione di benessere dei pesci, nonché parametri di base necessari per eliminare le principali cause di sofferenza per i pesci negli allevamenti. Tra queste sicuramente quella legata alla mancanza di metodi di stordimento e abbattimento più appropriati per le diverse specie di pesci che nei fatti si traduce nell’utilizzo diffuso di pratiche cruente e dolorose.
Nel caso dell’allevamento che abbiamo investigato, gli abbattimenti avvengono in maniera irregolare, con violenze sugli animali e sofferenze evitabili, come ad esempio l’applicazione dei morsetti dei cavi elettrici direttamente sulle branchie dei pesci, una parte del corpo particolarmente sensibile. Quando la corrente elettrica viene usata, come raccomandato dalla Commissione Europea, gli animali sono tenuti fuori dall’acqua e quindi la scarica elettrica non circola uniformemente tra gli animali, che non vengono quindi storditi in maniera efficace e immediata.
In realtà però, la maggior parte delle trote allevate nella struttura non viene stordita con la corrente elettrica, come previsto dalle raccomandazioni. Quattro trote su cinque sono destinate a diventare filetto, perciò la loro estetica di vendita è fondamentale. Ma quando i parametri elettrici impiegati durante lo stordimento non sono appropriati, sulla carne possono formarsi macchie di sangue. Questo minerebbe l’aspetto del prodotto, che rischierebbe di rimanere invenduto. Perciò l’ottanta per cento delle trote allevate in questo stabilimento viene ucciso per asfissia.
I pesci sono riconosciuti da numerose istituzioni come la World Organisation for Animal Health, l’organizzazione mondiale per la sanità animale, come esseri senzienti, capaci quindi di provare dolore o paura. Questo significa che il loro benessere non può essere ignorato quando si parla di sostenibilità, come nel caso dell’etichettatura ministeriale, altrimenti dovremo parlare di una certificazione a tutti gli effetti ingannevole.
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