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Sarà una compagnia petrolifera italiana, l’Eni, a riprendere dopo anni le esplorazioni alla ricerca di combustibili fossili nelle acque dell’Artico.
Quando nel novembre del 2016 le elezioni presidenziali negli Stati Uniti incoronarono il miliardario Donald Trump, qualcuno in Italia deve essersi fregato le mani. Più precisamente a Roma, in piazza Enrico Mattei, ai piani alti del “Palazzo di vetro”: la sede dell’Ente nazionale idrocarburi (Eni).
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È proprio la compagnia petrolifera italiana, infatti, ad essere stata scelta dall’amministrazione di Washington per riprendere le esplorazioni petrolifere nell’oceano Artico. Ovvero in una delle zone in assoluto più a rischio dal punto di vista ambientale, in caso di incidente. Basti ricordare il disastro del 24 marzo del 1989, quando l’Alaska venne devastato dal naufragio della petroliera Exxon Valdez. Quest’ultima, colando a picco, riversò nel mare 42 milioni di litri di greggio, provocando una delle peggiori catastrofi ambientali della storia: il petrolio uccise più di 250mila uccelli, migliaia di balene e altri animali marini.
Eni receives federal permit for US Arctic offshore drilling https://t.co/3dIxbGUSQY pic.twitter.com/d9UkqZAUzo
— Anchorage Alaska (@AnchorageRR) November 29, 2017
Un problema evidentemente secondario per Donald Trump, che ha concesso le prime autorizzazioni dal 2015 (l’ultima compagnia a riceverle era stata la Royal Dutch Shell). Il via libera definitivo al progetto è stato annunciato nella giornata di martedì 28 novembre dal Bureau of safety and environmental enforcement, dopo un primo ok ricevuto nello scorso mese di luglio.
Trump Administration Permits ENI to Drill for Oil Off Alaska https://t.co/pp56BVkqTN pic.twitter.com/m41kSLbsQ8
— The Voice of America (@VOANews) November 29, 2017
L’autorizzazione riguarda il mare di Beaufort, nel cui cuore è situata la piattaforma artificiale Spy Island. Un’isola artificiale che sorge a 4,8 chilometri dalla costa americana della baia di Prudhoe. Secondo quanto riferito dall’Associated Press, Eni utilizzerà delle “tecniche di trivellazione estesa al fine di raggiungere i fondali marini”.
Le prospezioni dovrebbero cominciare entro un mese circa. Per l’Artico, per l’Alaska e per gli Stati Uniti si tratta di una svolta: nel corso del 2015, infatti, l’allora presidente americano Barack Obama aveva messo al bando le trivellazioni nella zona. Ma Trump, ad aprile di quest’anno, ha ordinato al segretario agli Interni Ryan Zinke di rivedere la normativa, proprio con l’obiettivo di autorizzare nuove esplorazioni offshore. Nonostante l’opposizione delle associazioni ambientaliste e delle organizzazioni dei nativi.
“L’amministrazione di Washington – ha dichiarato Kristen Monsell, avvocato del Center for biological diversity – pone rischi altissimi alle comunità che abitano sulle coste e alla fauna consentendo alle compagnie straniere di trivellare nelle acque dell’Alaska”. Senza dimenticare che, anche qualora non si verificassero incidenti, la scelta di puntare sul petrolio, “ci spinge ancora più a fondo nella crisi climatica”.
Mentre da anni, infatti, il mondo si sforza di trovare la maniera di ridurre le emissioni di CO2 nell’atmosfera, mentre decine di migliaia di delegati partecipano ogni anno alle conferenze delle Nazioni Unite sul clima e mentre milioni di persone lavorano per una transizione verso le energie pulite, rinnovabili e sostenibili, gli Stati Uniti muovono i primi passi concreti controcorrente. Puntando dritto verso il passato. A braccetto con un colosso della nostra nazione, l’Italia.
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