Come il petrolio sostiene l’occupazione dei territori palestinesi

Un gruppo di associazioni chiede a Eni di sospendere il contratto con chi occupa i Territori palestinesi. E il governo della Colombia ha fermato l’invio di carbone.

  • Una petizione lanciata da ReCommon e altre associazioni chiede che Eni abbandoni l’accordo siglato con la società britannica Ithaca Energy.
  • La società è controllata all’89 per cento dalla Delek Group, accusata di violare i diritti del popolo palestinese in Cisgiordania.

Lo scorso aprile, Eni ha siglato un accordo di fusione tra la sua controllata del Regno Unito e la britannica Ithaca Energy: l’obiettivo della sinergia è portare la produzione nel mare del Nord a oltre 100mila barili di petrolio al giorno nel breve termine, e a oltre 150mila entro il 2030. Le associazioni impegnate in campagne di disinvestimento dai combustibili fossili, tra cui ReCommon – già coinvolta ne La giusta causa, il processo contro Eni – fanno notare che non solo così facendo la compagnia petrolifera conferma la volontà di continuare con il suo business as usual improntato sulle fonti fossili, ma aggraverebbe la sua reputazione stringendo rapporti con una società che viola i diritti dei palestinesi.

La petizione per fermare i finanziamenti

Ithaca Energy, i cui proventi del 2023 vanno oltre i 350 milioni di dollari, è controllata all’89 per cento da Delek Group, una delle principali aziende energetiche israeliane. Dal 2020, Delek Group è inserita nella lista nera delle Nazioni Unite che elenca le imprese attive nei Territori occupati da Israele dal 1967. Infatti, la società supporta l’occupazione dei Territori palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme Est e fornisce carburante alle forze armate di Tel Aviv, impegnate nella guerra in corso a Gaza. Secondo le associazioni e i gruppi di pressione, che hanno lanciato una petizione contro Eni, tutto ciò costituirebbe una violazione del diritto internazionale.

La petizione è già stata sottoscritta da numerose realtà della società civile italiana: Greenpeace Italia, Friday for future Italia, Focsiv e molte altre. “Eni ha una forte relazione d’affari con una società che di fatto sta contribuendo a finanziare la guerra in Medio Oriente”, ha dichiarato Eva Pastorelli, campaigner di ReCommon. “Per questo ci sembra doveroso che la società civile italiana faccia sentire la sua voce e chieda alla principale multinazionale del nostro Paese di interrompere questo legame così controverso. Nessun interesse economico può giustificare il perpetuare un conflitto che ha già mietuto decine di migliaia di vittime e di cui al momento non si vede una fine”, ha concluso Pastorelli.

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Il carbone è una fonte fossile ancora largamente impiegata in gran parte del mondo per produrre energia © Scott Olson / Getty Images

Le sanzioni sono possibili: il caso del carbone della Colombia

Le sanzioni energetiche sono state uno strumento ampiamente utilizzato contro la Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina. Infatti, l’Unione europea e gli Stati Uniti hanno adottato diversi pacchetti di sanzioni per obbligare le proprie società a evitare l’importazione e l’esportazione di gas e petrolio russi. Sanzioni di questo tipo, attualmente, non sono state adottate nei confronti di Israele. Eppure, c’è chi va in controtendenza rispetto al resto del mondo: la Colombia, per esempio, è il più grande esportatore di carbone verso Israele, o meglio, lo è stato fino allo scorso 8 giugno, quando il presidente Gustavo Petro ha annunciato il taglio delle forniture finché Israele non metterà fine alla distruzione della Striscia di Gaza.

Oltre il 60 per cento del carbone importato da Israele nel 2023 era di origine colombiana e il 22 per cento della produzione di energia elettrica israeliana dipende dal carbone. Questo combustibile fossile rappresenta, quindi, una risorsa vitale per la stessa rete elettrica che alimenta non solo gli insediamenti illegali e le fabbriche di armi israeliane, ma anche le infrastrutture utilizzate dall’esercito israeliano per perpetrare la guerra nella Striscia di Gaza.

Sintracarbón, il principale sindacato dei minatori colombiani, ha raccolto un appello di solidarietà lanciato dal movimento sindacale Palestinian general federation of trade unions, rilasciando una dichiarazione che chiedeva la sospensione delle esportazioni di carbone colombiano verso Israele. Nella loro richiesta, i minatori sottolineavano anche il ruolo nefasto di Israele nell’addestrare i paramilitari e i mercenari responsabili di atrocità diffuse in Colombia, e chiamavano a raccolta i lavoratori di tutto il mondo per “fermare la produzione di metalli, minerali e combustibili impiegati in queste guerre”.

Una coalizione di gruppi palestinesi, che ha adottato il nome di Global energy embargo for Palestine (Embargo energetico totale per la Palestina), ha dato seguito a questo appello, avanzando una richiesta molto più estesa: bloccare, a livello globale, le cessioni di combustibili utilizzati per alimentare l’apartheid in atto contro il popolo palestinese per mano di Israele. Tra i punti principali emergono, in particolare, l’interruzione dell’esportazione di fonti energetiche verso Israele, la sospensione degli acquisti di gas israeliano, e la cessazione di ogni collaborazione delle società energetiche a eventuali progetti energetici israeliani.

Per il momento, la Colombia ha risposto positivamente all’appello per quanto riguarda il “suo” carbone. Con questo embargo energetico, il governo colombiano vuole mostrare al mondo intero che esercitare una pressione concreta su Israele è possibile.

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