
Saudi Aramco, ExxonMobil, Shell, Eni: sono alcune delle “solite” responsabili delle emissioni di CO2 a livello globale.
Le conseguenze dell’estrazione e dell’uso del petrolio sono devastanti. Dall’ambiente alla salute, dai diritti umani fino ai conflitti armati.
“Non esiste posto al mondo migliore per le energie rinnovabili rispetto al nostro paese”. A dichiararlo, il 17 marzo 2016, non è stato un militante ambientalista ma Ali al Naimi, ministro del Petrolio dell’Arabia Saudita. Ovvero del secondo produttore mondiale di greggio (dopo gli Stati Uniti), con ben 11,5 milioni di barili al giorno.
Non a caso, secondo quanto riferito dall’agenzia Bloomberg, la monarchia araba sembra aver pianificato già da tempo la transizione, prevedendo di installare una capacità pari a 54 gigawatt di energia pulita entro il 2040.
Barili di greggio che produce l’Arabia Saudita, al giorno | 11,6 milioni |
Barili di petrolio consumati ogni anno nel mondo | 30 miliardi (fonte: Agenzia internazionale per l'energia) |
Quota di produzione mondiale di energia da fonti fossili | 80% (fonte: Agenzia internazionale per l'energia) |
Numero di decessi attribuiti ogni anno al solo inquinamento atmosferico nel mondo | 3,7 milioni (fonte: Oms) |
Le vittime dell’esplosione di una sola piattaforma petrolifera, la Deepwater horizon, nel golfo del Messico nel 2010 | 11 (fonte: BP) |
La strada, insomma, sembra ormai tracciata. Tuttavia, le nostre società dipendono ancora fortemente dal petrolio. Che non significa solamente benzina, ma anche plastica, asfalto, oli lubrificanti, cherosene, catrame, diesel. Si calcola che ogni giorno in tutto il mondo vengano consumati circa 90 milioni di barili di petrolio, il che equivale ad oltre 30 miliardi all’anno.
Per questo la lobby del nucleare insiste con la necessità di investire sull’atomo. Dimenticando però che anche i reattori funzionano grazie a risorse che prima o poi si esauriranno. Esistono infatti grandi riserve di uranio nel mondo, ma – come spiegato da un documentario di Dermot O’ Connor nel 2012 – se decidessimo di generare attraverso il nucleare la stessa quantità di energia elettrica prodotta oggi con i combustibili fossili, ci vorrebbero almeno 10mila centrali. Che consumerebbero le intere riserve di uranio esistenti in natura in non più di vent’anni.
Il fatto che occorrano soluzioni a più lungo termine non è dunque un’opinione bensì un dato di fatto. Ciò nonostante, decine di governi in tutto il mondo appaiono ancora ciecamente orientati ad insistere nell’estrazione di petrolio. In Italia si voterà il 17 aprile per scongiurare nuove trivellazioni in mare, autorizzate dal governo, alla ricerca di petrolio. Dall’altra parte dell’Atlantico, gli Stati Uniti hanno investito enormi quantità di denaro nello shale oil, nonostante i grandi rischi ambientali che esso comporta. Il Canada ha fatto altrettanto con le ecologicamente devastanti sabbie bituminose.
Tali nuove produzioni hanno aumentato sensibilmente l’offerta mondiale, facendo precipitare il prezzo del barile. E i paesi dell’Opec, anziché chiudere i rubinetti delle raffinerie nel tentativo di riequilibrare il mercato, hanno incrementato a livelli record la loro produzione, al fine di contrastare la concorrenza americana.
La corsa all’oro nero, insomma, non sembra arrestarsi né per ragioni ecologiche, né per ragioni economiche. Prova ne è il fatto che nel mondo si moltiplicano i conflitti consumati al fine di accaparrarsi pozzi, trivelle e raffinerie. Guerre che a volte esplodono anche a causa di fenomeni meteorologici estremi dovuti, in buona parte, ai cambiamenti climatici causati proprio dalle stesse fonti fossili (che rappresentano ancora oggi l’80 per cento dei consumi globali di energia).
Il caso della Siria, in questo senso è emblematico. Il paese, secondo secondo un’analisi di Le Monde, ha toccato nel 1996 quello che viene definito il “picco petrolifero”, ovvero il momento in cui la produzione di una determinata area raggiunge il suo massimo per poi ridursi progressivamente. Negli anni successivi, dunque, l’estrazione siriana ha registrato un netto calo.
Nel 2008, nel tentativo di contrastare l’esplosione del deficit pubblico, il regime di Bashar al Assad ha ridotto considerevolmente le sovvenzioni sulla benzina, che erano pari al 15 per cento del pil. Il prezzo del carburante è così triplicato dalla sera alla mattina, provocando un’inflazione eccezionale anche nei prezzi agricoli.
A ciò si è aggiunto il fattore climatico: dal 2007 al 2010, la Siria ha vissuto la peggiore siccità della propria storia. Un fenomeno estremo figlio dei cambiamenti climatici alimentati proprio dall’utilizzo di fonti fossili. La disperazione della popolazione e le mire di estremisti senza scrupoli hanno così catapultato la nazione in una guerra che dura ormai da cinque anni.
Anche lo Yemen ha superato il picco petrolifero, all’inizio degli anni Duemila: in breve, la produzione è diminuita, e oggi anche a Sana’a c’è la guerra. È probabile, inoltre, che il punto di massima produzione sia stato già toccato anche dall’Algeria, e cali probabilmente irreversibili si registrano in Venezuela, Messico, Indonesia, Russia, Iran, Nigeria e Cina.
Il mondo è perciò di fronte ad un bivio. Da un lato, continuare ad alimentare un sistema di produzione energetica insostenibile dal punto di vista ambientale, economico, sociale e climatico. Dall’altro, avviare una profonda transizione verso un nuovo modo di produrre energia: pulito, ecologico, rinnovabile, alla portata dei paesi ricchi come di quelli poveri.
Un cambiamento che permetterebbe, tra l’altro, di evitare 3,7 milioni di morti, ovvero quelli che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha attribuito, solamente nel 2012, alle conseguenze dell’inquinamento atmosferico in tutto il pianeta. Vittime alle quali si aggiungono le tante persone che perdono la vita sulle piattaforme petrolifere: solamente nel caso della Deepwater Horizon – esplosa nel 2010 nel golfo del Messico causando una delle peggiori catastrofi ambientali della storia degli Usa – le vittime furono undici.
Senza dimenticare i danni ambientali che il petrolio causa a livello locale. Un solo esempio può bastare per tutti: quello dell’inquinamento causato dallo sfruttamento petrolifero nel delta del Niger, costato la vita a Ken Saro-Wiwa, militante ecologista che si batté per difendere i diritti della popolazione locale e fu ucciso al termine di un processo considerato una farsa da buona parte della comunità internazionale.
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