È entrato in vigore l’embargo europeo contro il petrolio russo e un price cap di 60 dollari al barile. L’Ue spera così di diminuire i ricavi della Russia.
Il 5 dicembre sono entrati in vigore l’embargo europeo e il price cap al prezzo del petrolio russo, fissato a 60 dollari al barile, il 5% inferiore rispetto a quello di mercato, come richiesto dal governo polacco. Sono vietate le importazioni di greggio via mare (non quelle attraverso gli oleodotti) e secondo i calcoli della Commissione Ue questo dovrebbe bloccare il 94 per cento del greggio di Mosca destinato all’Europa occidentale.
Invece, il price cap approvato venerdì 2 dicembre dal G7 e dal Consiglio dell’Unione europea – a cui si è aggiunta l’Australia – vuole privare Mosca di una delle principali fonti di finanziamento della guerra contro l’Ucraina.
Stop al petrolio via mare
L’embargo sul petrolio russo è stato deciso a maggio di quest’anno ma è diventato operativo dal 5 dicembre. Questo vieta di importare petrolio via mare, dalle navi, ma esclude le importazioni attraverso gli oleodotti.
Il Cremlino ha annunciato possibili interruzionialle forniture per gli stati che hanno aderito al price cap: il vice primo ministro russo Alexander Novak ha detto che Mosca non permetterà alle aziende la vendita di petrolio sottoposto a un tetto del prezzo e che sta prendendo in considerazione un taglio della produzione per compensare le perdite dovute alle minori esportazioni.
Prima dell’invasione dell’Ucraina, il mercato richiedeva più di 1,5 milioni di barili al giorno: nelle ultime quattro settimane il flusso è sceso a meno di un quinto del volume. Per l’Ucraina, però, la misura è “troppo debole” e non riuscirà a fermare la Russia. Intanto in Italia, la raffineria di Priolo, Sicilia, di proprietà della russa Lukoil è stata nazionalizzata temporaneamente per poter permettere all’azienda di continuare a lavorare.
Come funziona il price cap sul petrolio
La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha affermato che il limite di prezzo ridurrà significativamente le entrate della Russia. “Ci aiuterà a stabilizzare i prezzi globali dell’energia, a vantaggio delle economie emergenti di tutto il mondo”, ha affermato von der Leyen su Twitter, aggiungendo che il limite sarà “regolabile nel tempo” per reagire agli sviluppi del mercato.
Il price cap, spiega l’agenzia di stampa Reuters, consentirà ai paesi extraeuropei di continuare a importare greggio russo trasportato via mare, ma vieterà alle compagnie di spedizione e assicurazione di movimentare carichi in tutto il mondo, a meno che non sia venduto a un prezzo inferiore o uguale al price cap. Poiché le compagnie di navigazione e di assicurazione più importanti hanno sede nei paesi del G7, il price cap dovrebbe rendere più difficile per Mosca vendere il suo petrolio a un prezzo più alto.
The EU agreement on an oil price cap, coordinated with G7 and others, will reduce Russia’s revenues significantly.
It will help us stabilise global energy prices, benefitting emerging economies around the world. pic.twitter.com/3WmIalIe5y
La proposta iniziale del G7 prevedeva un prezzo massimo di 65-70 dollari al barile senza alcun meccanismo di adeguamento. Dal momento che il greggio russo è già stato scambiato a un prezzo più basso, Polonia, Lituania ed Estonia hanno spinto per adottare un price cap che riducesse ancora di più i ricavi da parte dei russi. Inoltre, il price cap verrà rivisto a metà gennaio e successivamente ogni due mesi.
Il documento introduce anche un periodo di transizione di 45 giorni che si applica alle navi che trasportano greggio russo caricato prima del 5 dicembre e scaricato alla destinazione finale entro il 19 gennaio 2023.
La nazionalizzazione italiana della Lukoil in Sicilia
L’introduzione dell’embargo al petrolio russo avrebbe bloccato la produzione della raffineria di Priolo, che si trova nell’area industriale di Siracusa. Un impianto gestito da Isab (Industria siciliana asfalti e bitumi), una società di proprietà del colosso russo Lukoil, che in quanto russo è soggetto alle sanzioni finanziarie imposte contro Mosca. Dal 5 dicembre, infatti, la società non può più acquistare barili di greggio russo, per molto tempo unico mercato di approvvigionamento, mettendo a rischio 3000 posti di lavoro (senza calcolare l’indotto, stimato in 10mila persone).
Nelle settimane precedenti, il governo italiano ha discusso diverse ipotesi e nella serata di giovedì 1 dicembre il consiglio dei ministri italiano ha approvato il decreto che dispone l’amministrazione temporanea dello Stato per un massimo di un anno, prorogabile per altri 12 mesi. Si prevede che Eni indichi e sostenga il commissario straordinario che sarà nominato per supervisionare le operazioni. In questo modo, si permette alla Isab di ricercare altri venditori di greggio.
Priolo rappresenta oltre un quinto della capacità di raffinazione italiana e fornisce un quarto della benzina stradale dell’Italia. L’idea di una “nazionalizzazione” permette allo stato italiano di esercitare il controllo effettivo della raffineria attraverso il golden power, che consente al governo di proteggere gli asset strategici per la nazione, garantendo al contempo il margine di manovra necessario per le trattative di vendita.
Intanto il Financial Times ha spiegato che sono ripresi i colloqui con la società di private equity statunitense Crossbridge energy partners, che sta valutando l’acquisizione dell’impianto per 1-1,5 miliardi di euro.
C’è bisogno di riconversione
Ancora non si conoscono i dettagli della vendita né che cosa farà Crossbridge con la raffineria di Priolo. Ma la Crossbridge è un’azienda che investe in infrastrutture energetiche convenzionali adatte alla riconversione in impianti coerenti con la transizione ecologica: in bioraffinerie, ad esempio, ma anche in impianti di riciclo di oli esausti e in tecnologie per i biocarburanti e l’idrogeno verde.
La speranza è quindi che la raffineria di Priolo possa diventare un polo sostenibile perché la transizione ha bisogno di nuovi lavoratori nel campo delle energie rinnovabili. Una conversione che non riguarda solamente il processo di produzione ma anche delle capacità del personale, finora in difficoltà a convertirsi dal campo dei fossili alle tecnologie rinnovabili. Ma senza considerare l’aspetto formativo della forza lavoro, la transizione non potrà concretizzarsi.
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