Lo studio P(f)asta di Greenpeace evidenzia come i Pfas passino dall’acqua contaminata al cibo attraverso la cottura. La bollitura non distrugge questi composti pericolosi, prossimi al divieto mondiale.
Uno studio titolato simbolicamente P(f)asta condotto da Greenpeace e dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) mostra come le sostanze chimiche Pfas migrino negli alimenti come pasta o e riso attraverso l’acqua contaminata utilizzata per cucinare. Bollire l’acqua, infatti, non è sufficiente a distruggere queste sostanze.
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I composti chimici Pfas sono presenti in diversi prodotti, dalle pentole antiaderenti al filo interdentale. Impermeabilizzano e rendono resistenti i tessuti e gli oggetti della nostra vita quotidiana. Ma l’azienda che per sessant’anni li ha prodotti in provincia di Vicenza li ha rilasciati nella falda che alimenta un territorio di seicento chilometri quadrati. Dal 2013 l’acqua di quella falda è filtrata per la popolazione ma centinaia di persone sono ancora senza allacciamento all’acquedotto.
“Abbiamo scelto un caso estremo, acqua di un pozzo altamente contaminato nella zona più esposta del Veneto. Ma è un pozzo utilizzato per anni da famiglie che abitano ancora lì e che hanno aspettato dieci anni per avere l’acquedotto”, afferma Sara Valsecchi, la ricercatrice che ha condotto il nuovo studio sull’esposizione alle sostanze perfluoroalchiliche. Sostanze che lei e la sua équipe del dipartimento acque Irsa del Consiglio nazione delle ricerche hanno iniziato a studiare nel 2008.
Il primo esperimento di cottura con acqua contaminata
Il Cnr ha condotto insieme a Greenpeace Italia il primo esperimento sui Pfas in cucina, elaborando un rapporto dettagliato. “Greenpeace ha raccolto ortaggi e acqua nel comune di Lonigo, presso un’abitazione che non aveva ancora l’allacciamento all’acqua pulita dell’acquedotto. Abbiamo cotto pasta e riso provenienti dalla grande distribuzione con acqua che aveva trentamila nanogrammi per litro di Pfas e il risultato evidenzia l’alta migrazione di queste sostanze, soprattutto nella pasta”. Un etto di pasta cotto con quell’acqua equivale a bere un bicchiere di acqua contaminata. La pasta è il prodotto che assorbe maggiormente questi composti, a seguire il riso e le verdure fatte bollire per diversi minuti.
“È un esperimento limitato, sia per campioni che per estensione della raccolta ma evidenzia un fattore importante che per ora, a nostro avviso, non è mai stato studiato in letteratura. Non è vero che questi composti scompaiono se vengono fatti bollire e in più gli alimenti base della nostra dieta mediterranea sono predisposti ad assorbirli”, spiega la dottoressa Valsecchi.
La contaminazione nei cibi aumenta all’aumentare del tempo di ebollizione, perché i Pfas si concentrano nell’acqua e vengono assorbiti dal cibo. Solitamente la pasta raddoppia il suo peso, dall’etto crudo si arriva ai due etti da cotta, e il peso aggiunto è fatto d’acqua, in questo caso contaminata con concentrazioni altissime di Pfas. A conferma che la cottura è un veicolo di contaminazione sono significativi i dati sugli ortaggi raccolti da Greenpeace nell’orto della famiglia di Lonigo. Gli ortaggi coltivati con acqua di pozzo contaminata e piantati in un suolo contaminato non raggiungono gli stessi valori di pasta e verdure cotte durante l’esperimento.
Cosa significa assorbire alte dosi di Pfas
Nel 2020 l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ha fissato 4,4 nanogrammi per chilo corporeo come sogliamassima di assunzione per quattro Pfas, in una settimana. Questo studio dimostra come una persona adulta di sessanta – settanta chili superi tale dose anche assumendo solo una porzione di cibi lessata con acqua contaminata in sette giorni.
La famiglia che ha partecipato a questo lavoro abita nell’epicentro della contaminazione e rientra nello screening sanitario Pfas della regione Veneto. A seguito, infatti, della contaminazione delle acque potabili nelle province colpite dal 2017, la Regione effettua analisi del sangue per monitorare i Pfas, che dimezzano la loro presenza nel sangue dopo tre – cinque anni.
Tra le nove persone coinvolte nello studio Cnr – Greenpeace non si registra una significativa diminuzione nel tempo delle concentrazioni di Pfas, e in un caso perfino si evidenzia un importante aumento. Dal 2014 il Comune di residenza ha ordinato di utilizzare solo acqua in bottiglia, sia per bere che per l’alimentazione, assicurando il prossimo allacciamento all’acquedotto. Ma per quelle nove persone si è dovuto aspettare dieci anni, perché solo a marzo 2023 finalmente dai rubinetti delle loro case è uscita acqua filtrata.
“Questa ricerca evidenzia che l’esposizione della popolazione ai Pfas è stata finora sottostimata – dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace Italia – e che molte persone, non solo in Veneto ma anche in altre regioni italiane, come Piemonte e Lombardia – dove è stata scoperta la presenza di questi pericolosi inquinanti nell’acqua, possono essere esposte a contaminazione anche attraverso la cottura dei cibi. Per tutelare efficacemente la collettività sono necessari provvedimenti non più rinviabili, come il divieto della produzione e dell’uso di queste pericolose sostanze sull’intero territorio nazionale”.
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