Non sono bastati disastri ambientali ed emergenze sanitarie: l’Italia non ha ancora posto limiti alle sostanze pericolose Pfas. E la crisi politica allontana la soluzione al problema.
Ci siederemo tutti intorno ad un tavolo non per far chiudere le industrie ma per tutelare la salute di tutti. Non è possibile morire di tumore solo perché si nasce vicino ad uno polo chimico
Viola Cereda, comitato Stop Solvay Alessandria
Il 21 gennaio una decina di persone si sono ritrovate online per discutere di quali e quanti limiti mettere alla grande famiglia dei Pfas, composti chimici definiti a livello mondiale forever chemicals, non degradabili naturalmente e ritenuti tossici per l’ambiente e l’uomo, molti già elencati nella lista delle sostanze “estremamente preoccupanti” dell’Agenzia europea delle sostanze chimiche (Echa).
Nel nostro paese esiste una delle più vaste contaminazioni europee da Pfas, dove vengono prodotti per la lavorazione delle pelli, che le rende impermeabili, diverse parti delle automobili e centinaia di altri prodotti di vita quotidiana come le padelle antiaderenti, la sciolina fino alle attuali mascherine chirurgiche. Sostanze tossiche rilasciate negli scarichi e non ancora normate a livello legislativo, libere quindi di immettersi nei fiumi, nei terreni, nelle rete idriche fino ai cibi che mangiamo.
Il tavolo di lavoro è stato voluto fortemente dai gruppi ambientalisti veneti e piemontesi che da anni combattono contro l’inquinamento idrico dovuto agli sversamenti nei fiumi del nord Italia che hanno causato emergenze ambientali, e nato dopo anni di lavoro delle Agenzie regionali per l’ambiente (Arpa), l’Istituto superiore di sanità (Iss) e l’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale (Ispra).
Proprio queste tre istituzioni a fine 2019 avevano mandato all’ormai ex ministro dell’ambiente Sergio Costa una lista di Pfas, includendo i più pericolosi già banditi a livello europeo. Una lista – ridimensionata a soli dodici Pfas, su un totale di oltre 5mila – inclusa nel collegato ambientale che a settembre 2020 era pronto a ridimensionare la presenza di composti chimici nel nostro territorio. Una lista stracciata dalla crisi politica attuale, quindi un ricominciare da zero.
Ci hanno promesso limiti a zero e il ministro Costa ci ha incontrate personalmente. Non vogliamo far chiudere le aziende, ma pretendiamo acqua pulita. Ci devono ascoltare, siamo noi a morire
Michela Piccoli, Mamme No Pfas Veneto
Le leggi internazionali sulle sostanze chimiche pericolose e i limiti non applicati in Italia
L’Europa ha iniziato a lavorare sui Pfas nel 2002 creando il gruppo di lavoro Perforce, coordinato da Pim de Voogt, chimico e docente universitario ad Amsterdam. Un lavoro europeo che ha portato a parlare di Pfas nei cibi, nell’agricoltura e nella vita quotidiana dei cittadini.
Tra il 2004-2006 con il progetto Perforce abbiamo dimostrato che gli Pfas possono essere trovati ovunque in Europa nei fiumi, nei sedimenti, nei pesci, nelle acque reflue e nell’aria. Il progetto ha concluso che mancavano molti dati sulle proprietà dei Pfas e che c’era un’urgente necessità di raccogliere dati sull’esposizione umana a questi composti
Pim de Voogt, coordinatore di Perforce
Nel 2000 l’Italia aveva accolto la legge europea mirata a ridurre le sostanze tossiche negli scarichi industriali – una normativa assimilata dalla legge italiana nazionale, la 152 del 2006 – che nel 2013 la sola regione Veneto ha utilizzato per fissare limiti Pfas all’acqua potabile a seguito dell’emergenza sanitaria in Veneto, quando la regione e l’Istituto Superiore di sanità denunciarono un’altissima presenza di queste sostanze nei rubinetti di tre provincie, oltre venti comuni tra Verona, Vicenza e Padova.
I limiti erano stati decisi per tutelare la popolazione da queste sostanze che danneggiano il sistema endocrino, causando tumori, colesterolo e difficoltà al sistema riproduttivo. Però, le attuali restrizioni non comprendono l’acqua utilizzata per irrigare, allevare e negli orti privati, in un Veneto agricolo che esporta prosecco in tutto il mondo.
A metà dicembre 2020, inoltre, il Parlamento europeo ha attuato la nuova normativa della legge sull’acqua potabile, che indica una lista di sostanze altamente nocive che si trovano nelle reti idriche potabili. Questa lista include i Pfas, limitandone la presenza complessiva a 0,50 microgrammi al litro e stabilendo un ulteriore limite più restrittivo di 0,10 microgrammi/litro per la somma di alcuni Pfas ritenuti preoccupanti.
Sebbene l’Italia abbia ratificato queste leggi, nel nostro paese esiste una delle più vaste contaminazioni europee da Pfas. La lavorazione di materiale chimico necessita di grandi quantità di acqua e l’Italia è un paese ricco di fiumi: ne ha più di 1.200. Secondo il dossier di Legambiente H2O. La chimica che inquina l’acqua, infatti, circa il 60 per cento di questi fiumi è inquinato e ci sono 45 sostanze che rappresentano un “rischio significativo” per (o proveniente da) l’ambiente acquatico.
Abbiamo circa 2.700 sostanze emergenti nelle nostre acque, con potenziali effetti avversi su salute e ambiente, che risultano ancora in gran parte non regolamentate. Sono presenti in piccole concentrazioni ma possono creare un effetto cocktail molto negativo
Andrea Minutolo, ex responsabile scientifico Legambiente
Alberto Maffiotti, ex direttore della sede di Alessandria dell’Arpa Piemonte, ha condotto con il Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri l’indagine che ha portato al processo l’azienda chimica Solvay e ha partecipato al tavolo tecnico che ha proposto i limiti nazionali per i Pfas: “L’analisi delle acque ha una struttura precisa: bisogna partire dalla sorgente, cioè dalle acque di scarico delle industrie, poi passare per il mezzo, che sono i fiumi, e arrivare infine al bersaglio, l’acqua potabile che arriva alla popolazione. Finora abbiamo normato il bersaglio per motivi sanitari. Ora è necessario risalire alla sorgente industriale, perché da lì parte tutto l’inquinamento”.
La contaminazione di Pfas in Italia
I Pfas in Italia sono prodotti attualmente in Piemonte dalla Solvay Solexis, condannata per disastro ambientale colposo nel dicembre 2019, e in Veneto (fino al 2018) dalla Miteni, fatta fallire a seguito dell’indagine sfociata nel più grande processo italiano per crimini ambientali che a fine marzo vedrà imputati oltre venti dirigenti per disastro innominato, avvelenamento delle acque e fallimento fraudolento. Due realtà collegate tra loro per lo scambio di materiale Pfas (Solvay produce, Miteni lavora) e da un nome, quello di Luigi Guarracino, condannato nel processo contro Solvay e, negli ultimi anni, dirigente Miteni.
Piemonte. La storia di Solvay e la condanna per disastro ambientale
Solvay Solexis è un’industria chimica belga da 13 miliardi di dollari di fatturato e leader mondiale per la produzione di soda e bicarbonato. Produce 35 composti chimici, 14 dei quali sono ufficialmente riconosciuti come sostanze chimiche estremamente preoccupanti dall’Ue. Nella lista delle 35 industrie chimiche mondiali più importanti fatta dalla ong Chemsec, Solvay è al ventottesimo posto per impegno verso l’ambiente e una delle otto industrie a produrre sostanze perfluoroalchiliche.
Nel 2008 uno studio del suolo vicino allo stabilimento Solvay di Alessandria evidenzia la contaminazione del terreno (non solo a opera di Solvay, arrivata da circa vent’anni, ma anche di Ausimont, che vi operava precedentemente).
In pochi mesi l’industria viene portata in tribunale per disastro ambientale e dopo dieci anni, a dicembre 2019, vengono condannati tre dirigenti, uno di Solvay (Guarracino) e altri due di Ausimont.
Nel 2010 nel fiume Bormida, che scorre vicino allo stabilimento, Arpa Alessandria trova tracce di Pfoa, un Pfas a catena lunga che dal 2002 è considerato pericoloso in America e dal 2009 è soggetto a restrizione in Europa e ora vietato a livello internazionale con la convenzione di Stoccolma.
Nel 2013 l’industria registra presso il Registro per le sostanze chimiche dell’Echa (Reach) il cC6O4, in sostituzione del Pfoa. Il nuovo composto, un Pfas a catena corta (con meno di 8 atomi di carbonio), in poco tempo diventa uno dei prodotti più importanti dell’azienda e nel dicembre 2019 ne viene chiesto l’ampliamento della produzione, uno 0,2 per cento in più (per un totale di circa 60 tonnellate l’anno), che serve ad assorbire il lavoro non più svolto dalla Miteni fallita.
Nel giugno 2020 la sostanza viene trovata nelle acque dei pozzi di Montecastello, vicino allo stabilimento Solvay, e il sindaco chiude la rete idrica in via precauzionale.
Attualmente il composto è ancora in attesa dell’esame dell’Agenzia europea delle sostanze chimiche, per ora quindi il registro Reach contiene solo i dati presentati da Solvay, che con un comunicato stampa dopo la chiusura degli acquedotti ha rassicurato: “Il C6O4 possiede un profilo tossicologico migliore del Pfoa. Inoltre, i dati disponibili indicano che non è biopersistente né bioaccumulabile”.
Dato il grandissimo numero di sostanze chimiche presenti sul mercato, però, il processo mediante il quale le sostanze vengono valutate dall’Unione europea, e quindi per arrivare a una comprensione adeguata dei rischi, può durare diversi anni. E per il cC6O4 non è ancora partito.
Bisogna valutare tutti gli aspetti di rischio delle sostanze, considerando i lavoratori e la popolazione potenzialmente esposta, le modalità con cui le sostanze si muovono nell’ambiente, gli effetti e il rischio per gli organismi esposti
Pietro Paris, tecnico Ispra
Già a dicembre 2019 Maffiotti aveva spedito al ministero dell’Ambiente una relazione sulla situazione locale chiedendo di includere nella lista il cC6O4 entro 0,5 microgrammi/litro. Il composto compare nella lista dei Pfas da limitare proposta dal ministero. Un limite stringente rispetto l’attuale presenza negli scarichi di circa 40 microgrammi al litro e una richiesta di Solvay di limitare a 100 microgrammi.
Veneto. La storia di Miteni e l’emergenza sanitaria
Oltre 350mila persone tra Verona, Vicenza e Padova, un terzo del Veneto, sono state contaminate dall’acqua della la seconda falda più grande d’Europa che l’industria chimica Miteni di Trissino ha riempito di Pfas dagli anni Sessanta. Quando nel 2013 la Ulss Berica e Regione Veneto ricevono dal governo i dati della contaminazione, cominciano a limitare i Pfas nella rete idrica potabile per possibile emergenza sanitaria (escamotage utilizzato per le sostanze non ancora normate in Italia, ma ritenute pericolose): prima 500 nanogrammi/litro per la somma dei Pfas presenti, poi 30 nanogrammi per la somma dei due Pfas più studiati e cancerogeni, Pfos e Pfoa, e 300 per la somma di tutti gli altri, 330 nanogrammi al litro in totale. In Germania, dove esiste una forte contaminazione, i limiti sono fissati a 100 nanogrammi litro per la somma dei Pfas.
Nicola Dell’Acqua è stato direttore di Arpa Veneto e fino a dicembre 2020 è stato Commissario straordinario per l’emergenza Pfas: “Quando le analisi del fiume Po hanno dimostrato la presenza di queste sostanze tossiche abbiamo deciso di limitare per la prima volta in Italia questi composti, ma non avendo una normativa da seguire abbiamo dovuto individuare noi dei limiti. E dal 2013 stiamo ancora aspettando di avere linee guida nazionali”. Il Veneto quindi limita seguendo delle linee guida europee che indicano 330 nanogrammi litro come tetto massimo per l’essere umano.
Un cane che si morde la coda: senza norme nazionali sugli scarichi le Regioni non hanno possibilità di restringere la presenza di inquinanti nelle acque di scarico.
Ma come si è arrivati ai limiti del 2013 di Arpav?
Già nel 1990 la Miteni era a conoscenza del forte inquinamento del suolo e della falda sottostante il polo chimico, dopo aver condotto uno studio specifico con la società Ecodeco. All’epoca il materiale ritrovato nei terreni, filtrato attraverso scarichi nel torrente Poscola, era composto da benzotrifluoruri (btf). Miteni decide di non divulgare questi dati, probabilmente perché avrebbe dovuto sostenere i costi della bonifica e subire una possibile chiusura dell’impianto.
Tra il 1994 e il 2009 l’azienda commissiona altre tre analisi per verificare la presenza di ulteriori inquinanti. La società incaricata, la Erm Italia, nel 2004 dimostra la presenza sotto la fabbrica di diversi materiali inquinanti (oltre 3.000 metri cubi), fino a rilevare nel 2009 picchi di Pfos di 6.430 microgrammi per litro nelle acque di falda.
Nel 2004 Miteni progetta una barriera idraulica per filtrare le sostanze inquinanti, che ormai hanno raggiunto i quattro metri di profondità sotto l’impianto. Nel frattempo viene costruito un sistema di filtraggio delle acque di scarico della zona industriale, che consta di decine di concerie che esportano in tutto il mondo, il collettore Arica. Voluto e finanziato dalla Regione è un punto di unificazione di tre fiumi (Gua, Fratta e Leb) che dovrebbe diminuire la presenza di sostanze nocive, tra cui i Pfas della Miteni.
Il principio di diluizione non è accettabile, perché queste sono sostanze persistenti che anche se rilasciate a basse concentrazioni continueranno ad accumularsi nell’ambiente, determinando una crescita continua di quello che viene chiamato lo stock ambientale. Gli effetti di tali sostanze potranno poi manifestarsi in seguito all’accumulo o all’esposizione continua nel tempo. Non esistono allo stato attuale test di laboratorio in grado di fare previsioni sugli effetti di lungo termine
Pietro Paris, tecnico Ispra
È proprio a partire dal monitoraggio del collettore che Arpav arriva ai limiti del 2013: “Abbiamo deciso di imporre dei limiti agli scarichi quando abbiamo visto i dati del collettore Arica, un inquinamento di oltre 28.440 tonnellate all’anno di cloruri, 23.124 tonnellate all’anno di solfati, 7.678 di tonnellate all’anno di cromo. Ma il Tribunale della Acque di Roma ha accolto il ricorso delle industrie conciarie che scaricano, dicendo che senza limiti di legge non è possibile imporre delle restrizioni regionali”.
Al momento il territorio contaminato aspetta ancora una bonifica. Nel 2017 Regione Veneto, Provincia di Vicenza e comune di Trissino avevano firmato un protocollo d’intesa per iniziare un processo di messa in sicurezza e bonifica del terreno sottostante la fabbrica. Intesa sospesa nel momento in cui la procura ha aperto le indagini contro Miteni.
Il disegno di legge
Quando il 17 settembre 2020 arriva al tavolo dell’ex direttore di Arpa Veneto la tabella 5 dell’articolo 15 del collegato ambientale, la lista di dodici sostanze Pfas che devono stare sotto i 0,5 microgrammi al litro e sono sommabili tra loro, il Commissario non nasconde il suo dispiacere nel vedere che molti dati richiesti forniti dai suoi tecnici non sono inclusi: “Nei nostri documenti avevamo suggerito altre cose: mettere limiti sulla molecola in generale, non solo questi dodici composti che sono per la maggior parte le catene lunghe ormai non più prodotte”.
Un’amarezza che dimostra come ci sia la difficoltà di tutelare l’ambiente ma rispondere anche alle richieste industriali di evitare limiti troppo bassi. Dall’Acqua apprezza comunque questa prima lista e ritiene importante arrivare ad avere una linea nazionale: “Rimaniamo in attesa, fiduciosi. Quando la legge con i limiti verrà approvata saremo i primi ad applicarli”.
Dal Green deal europeo alle restrizioni comunitarie nell’Europa piena di Pfas
A metà ottobre 2020 gli stati europei hanno concordato la nuova strategia per attuare gli accordi del Green deal, la nuova politica ambientale europea. Uno dei punti di questa strategia è limitare le sostanze chimiche inquinanti prodotte nel mondo e presenti nel 99 per cento del pianeta. In uno dei primi paragrafi dello Green deal europeo si evidenzia la pericolosità dei Pfas per l’uomo, in quanto indeboliscono le difese immunitarie, abbassando dunque anche la risposta ai vaccini, dato particolarmente allarmante in questo periodo di pandemia da Covid-19, come ha subito denunciato il professor Philippe Grandjean.
Entro aprile 2021 verranno dunque ristretti tutti i Pfas a catena lunga, dopo un lungo lavoro di analisi fatta dalla maggior parte dei paesi membri dell’Ue, Italia inclusa, anche se, precisa il tecnico Ispra Pietro Paris, “dal nostro governo non è mai partita la richiesta di restrizione per uno di questi composti”, nonostante nel nostro Paese vi sia “il più grande inquinamento europeo da Pfas”.
Gli Stati membri possono infatti presentare alla Commissione europea una proposta di restrizione della produzione di determinate sostanze, se ritenute estremamente preoccupanti (Svhc).
Ma i Pfas, buttati fuori dalla porta, spesso rientrano dalla finestra.
Ian Cousins è il coordinatore dell’attuale progetto europeo Perforce, ora Perforce3: “Lavoro sui Pfas da 20 anni e solo pochi sono regolamentati, le industrie quindi non sono limitate nella loro capacità di inquinare. Altri sono normati, ma anche alcuni di questi continuano a entrare nell’ambiente. Ad esempio il Pfoa non è regolamentato in Cina, quindi viene utilizzato per produrre Ptfe (prodotto da Solvay in Italia grazie al c6o4). Inoltre, anche se il Pfoa in Europa è bandito, lo stesso è presente ad alti livelli (molte volte al di sopra dei limiti) ad esempio nelle scioline”.
The high persistence of PFAS is a problem in itself and society should find degradable alternatives to PFAS when their uses are non-essential. Read our "just accepted" paper out now. @EnvSciRSC#PFAS#essentialityhttps://t.co/P4UzGt37RW
In più, i limiti europei riguardano solo i Pfas a catena lunga, per questo Germania, Olanda, Danimarca, Svezia e Norvegia hanno chiesto di restringere tutti i Pfas, anche quelli a catena corta.
La Germania, in particolare, ha diversi siti inquinati, sia per utilizzo di Pfos in zone militari e aeroportuali sia perché ha riciclato in ambito agricolo materiale contenente Pfas. Nella regione di Baden-Wuerttemberg era stato infatti utilizzato come fertilizzante del materiale ottenuto dal riciclo di carta impermeabilizzata mediante Pfas e utilizzata per scopi alimentari. I Pfas hanno resistito alla lavorazione e sono arrivati ai fanghi destinati all’agricoltura.
Dopo aver iniziato una fase di bonifica dei terreni il Paese ha deciso di portare agli organi europei una proposta per restringere tutti i Pfas non essenziali. Un percorso, esteso anche alle aziende produttrici, chiamato Call for evidence e finalizzato a costruire una mappa di prodotti necessari e quindi a restringere la produzione mondiale di Pfas.
Tale richiesta ha provocato una reazione delle società chimiche che hanno chiesto di specificare i materiali considerati “essenziali”. La Chemours, figlia dell’americana Dupont, che per prima portò nel mercato i Pfas creando il Teflon delle padelle antiaderenti, a metà dicembre 2020 ha promosso un webinar per spiegare la propria politica “ecologica” e per fare pressione sugli organi decisionali europei al fine di non restringere la produzione.
L’italiana Federchimica, associazione di categoria che rappresenta le industrie nazionali tra cui Solvay ai tavoli europei, conferma come il termine “essenziale” non sia specificato nella richiesta di restrizione e quindi non sia possibile registrare un composto utilizzando questo criterio. Federchimica parla di un’ulteriore difficoltà: “Questo nuovo criterio di restrizione rappresenterebbe un ostacolo all’ innovazione, per esempio per applicazioni che potrebbero essere di supporto per la transizione all’economia circolare o per affrontare il problema del riscaldamento globale”. Restringere i prodotti chimici per loro, quindi, significherebbe privarci di nuovi strumenti chimici per tutelare l’ambiente.
Pfas nelle nostre vite, le best practice per limitare i danni
Ma se le istituzioni fanno fatica a difenderci, quali possono essere efficaci sistemi di autotutela?
Zhanyun Wang è professore al dipartimento di chimica dell’Istituto di scienza e tecnologia di Zurigo (Eth) e da oltre vent’anni si occupa di Pfas. I suoi ultimi studi si dedicano alla possibilità di sostituire i Pfas con sostanze non impattanti, per rispettare il protocollo di Madrid del 2015, che dichiara i Pfas emergenza mondiale per l’ambiente. “Teoricamente sarebbe possibile. Ma quanto sia fattibile nella vita reale è una questione diversa”. Mancano infatti alternative economicamente simili ai Pfas e per questo finora solo pochi Paesi hanno spinto per prodotti Pfas-free.
Malgrado quindi queste sostanze siano pressoché ovunque – dalle pelli delle borse, al filo interdentale, agli abbigliamenti in gore-tex, alle scarpe impermeabili e in centinaia di altri prodotti – la possibilità di trovare una via di scampo alla contaminazione esiste ma dipende ancora dalla volontà del singolo cittadino, che deve districarsi quindi tra etichette e lista degli ingredienti.
Il progetto inglese Fidra, nato nel 2018, aiuta il consumatore a controllare la presenza, o meno, di Pfas nei prodotti che acquista. Nel sito della ong si può trovare una lista sempre aggiornata, divisa per prodotti, in cui compaiono le marche che non utilizzano Pfas.
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L’italiana Benetton ha deciso un paio di anni fa di studiare e produrre materiale Pfas free, realizzando tessuti biologici. Ma tutto rimane a discrezione del caso e della mentalità ecologica di poche aziende. Le grandi battaglie di alcune mamme americane hanno obbligato Mc Donald’s a sostituire i contenitori dei panini con materiale senza Pfas e i cittadini olandesi hanno ottenuto analisi del sangue gratuite per capire se nella cittadina di Dordrecht la Chemours abbia contaminato di GenX i loro figli.
In Italia stiamo attendendo la politica, sapendo che al tavolo ministeriale per ridurre la presenza di Pfas negli scarichi ci saranno anche Solvay e Chemours, insieme alle mamme no Pfas del Veneto, Legambiente Piemonte e le Arpa.
Dopo i rilievi nell’acqua potabile del Veneto e della Lombardia, sono state trovate tracce di Pfas nei delfini, tartarughe e squali spiaggiati sulle coste della Toscana.